sabato 21 aprile 2018

Cannibal Corpse: "Gallery of Suicide" (1998)


Mettete a letto i bambini e chiudete bene le imposte alle finestre: stanno arrivando i Cannibal Corpse a presentarci il loro sesto album in studio, "Gallery of Suicide", uscito vent'anni fa oggi!
Anno 1998, i Cannibal Corpse danno alla luce "Gallery of Suicide", sesto lavoro di una carriera che non ha mai conosciuto freni (ad oggi sono 14 gli album da studio), il secondo con George Fisher dietro al microfono.

Anni or sono, con "The Bleeding" il gruppo si mostrava deciso a dedicarsi a un songwriting più versatile scostandosi dalla brutalità cieca degli esordi, scelta stilistica non vista propriamente di buon occhio dalla frangia più oltranzista del seguaci brutallari del gruppo. Ecco quindi arrivare lo split con il singer storico Chris Barnes (che non perse tempo, andando subito a ululare la sua incazzatura nei Six Feet Under,a conti fatti uno dei peggiori gruppi death della storia, nonostante un buon esordio) e l’avvicendamento con Giorgione Corpsegrinder proveniente dai Monstrosity (protagonisti di due album superlativi, fra i migliori e più sottovalutati in assoluto del death metal floridiano). Con lui incisero subito "Vile", lavoro che riportava il gruppo a far quello che faceva un tempo, martellare a destra e manca senza compromessi. Disco positivo, nel complesso, ma troppo monotematico.

Con "Gallery of Suicide" il gruppo tenta nuovamente di evolversi, senza snaturare minimamente la propria direzione stilistica. Perché diciamolo, i Cannibal Corpse sono un po’ i Motorhead del brutal. Innanzitutto, ecco un altro cambio nella lineup, Rob Barrett , una delle due asce, abbandonò il gruppo per rientrare nei Malevolent Creation (dieci anni dopo farà ritorno nei Cannibal), il sostituto designato per affiancare Jack Owen fu Pat O’Brian. Chitarrista dall’apprendistato techno-thrash molto dotato tecnicamente, non tralasciamo il fatto che veniva da una breve ma intensa esperienza con i Nevermore, con cui aveva inciso "Memory" e soprattutto il masterpiece assoluto "The Politics of Ecstasy". Il suo valore aggiunto contribuirà a conferire alle composizioni una sorta di cadenza (ci rifiutiamo di nominarla melodia) cupa e sinistra, ottimamente incorporata nel mood di quest’opera malata.

Ad aprire le macabre danze provvede "I Will Kill You", pezzo piuttosto esemplificativo di quello che il gruppo ha intenzione di propinarci, mazzate a go go, riff morbosi e ossessivi ma più articolati rispetto a "Vile" e ai primi tre lavori griffati Cannibal Corpse. Alex Webster, un vero asso delle quattro corde, guida una sezione ritmica annichilente coadiuvato dai fendenti del metronomo Paul Mazurkievicz, notevolmente meno dotato dei colleghi, tanto preciso quanto monotono. Anche Fisher dietro al microfono pare abbia trovato una dimensione ideale per il suo growl, sempre gutturale e abrasivo, ma con una qual parvenza di umano, le parole spesso sono distinguibili (e questa è l’eccezione alla regola) e ben scandite.

"Disposal of the Body" è un’altra legnata che ti stende come una mazza da baseball in piena fronte, poco meno di due minuti di ferocia sonica. Arriviamo a "Sentenced to Burn", se non il top, uno dei pezzi migliori del disco, stavolta abbiamo a che fare con un up-tempo traboccante di malsano groove; con "Blood Drenched Execution" il gruppo torna a smazzulare di brutto, da segnalare il buon solo ad opera di Pat O’Brien che si conferma valore aggiunto dei cinque floridiani.

La title track è un altro esempio di come la brutalità lasci spazio a un’atmosfera malsana giocata su tempi cadenzati e conturbanti, con cui la lunga strumentale "From Skin to Liquid" fa il paio: cinque minuti e mezzo sono un’eternità considerando che raramente il loro pezzi hanno superato i cinque minuti di durata e mai superato i sei, ed è un caso più unico che raro quello di sentire un intermezzo privo di growl catacombali in un album dei Cannibal Corpse (se si esclude un breve intermezzo su "Vile").

Il resto del disco risulta decisamente sottotono rispetto alla prima parte, fatta eccezione per "Headless" che si mantiene su buoni standard, ma quattordici pezzi sono troppi e alla lunga il tutto stanca.

Superfluo spendere qualche parola sui tremi trattati nei testi, meno violenti e truculenti che in passato quando ad occuparsene era esclusivamente Chris Barnes, ma l’immaginario a base di serial killer, sbudellamenti, smembramenti, torture, sevizie, insomma, tutto quello che concerne gli slasher movie di serie D (fino alla Z).

L’artwork, come di consueto suddiviso in copertina designata e copertina alternativa per i capricci della censura, è come sempre prodotto dalla mano (e dalla mente perversa) di Vincent Locke. Buona anche la produzione a cura del guru del death metal Jim Morris (alla sua prima collaborazione con i Cannibal Corpse dopo la separazione di questi ultimi da Scott Burns), non sempre meritevole di lodi ma stavolta impeccabile.

"Gallery of Suicide" è uno degli apici dei Cannibal Corpse, il loro lavoro più vario e completo, anche se non esente da difetti, comunque il top dell’epoca Barnes. Signori, il buffet a base di organi, arti e membra umane è servito.

- Supergiovane

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