mercoledì 14 marzo 2018

Morrissey: "Viva Hate" (1988)

Trent'anni fa oggi usciva il primo, eccellente album solista di Morrissey, "Viva Hate". A ottobre 1987, un solo mese dalla pubblicazione dell'ultimo disco dei disciolti Smiths, il cantante è già in studio a registrare nuove canzoni, che pubblica nel marzo successivo, dimostrando di essere ben deciso a rimanere una forza creativa con la quale fare i conti.






 (il disco completo si può ascoltare qua: https://www.youtube.com/watch?v=UgQanZlkybI)

Nel luglio del 1987, Johnny Marr lascia gli Smiths, firmando la loro fine: Morrissey prova ad andare avanti coinvolgendo il chitarrista Ivor Perry, ma la chimica non è la stessa e quando a settembre esce "Strangeways, here we come", la formazione è già bella e sepolta.

Morrissey però non ha certo intenzione di mollare il mondo della musica. Le idee sono abbastanza chiare, ovvero: continuare il percorso di pop malinconico, angolare, barocco e indipendente portato avanti ormai dal 1982.

Per farlo, il cantante anglo-irlandese ha bisogno di un personale all'altezza: e decide di riformare una partnership a quattro, con il bassista e produttore Stephen Street (che aveva già lavorato con gli Smiths a "The Queen is Dead" e "Strangeways, here we come"), con il batterista di fiducia di Street, Andrew Paresi, e con un altro brillantissimo chitarrista quale Vini Really, leader dei Durutti Column.

L'inizio delle sessions è immediato, se a settembre esce l'ultimo album degli Smiths a ottobre Morrissey è già in studio col nuovo quartetto. I musicisti scelti non tradiscono le sue aspettative, e "Viva Hate", che esce a marzo, è un disco che apre in gloria la carriera solista di Morrissey e ce lo consegna senza paura a una nuova vita senza Smiths.

La cupezza di "Alsatian Sound" ci introduce subito alle nuove atmosfere del cantante, che ha il grande merito di riuscire a mantenere un trait d'union col passato senza appiattirvisi, probabilmente anche grazie alla brillante scelta di musicisti - il contributo di Vini Reilly al sound del disco non può essere sminuito.

L'album prosegue snocciolando classici: "Everyday is like sunday" vale quanto un classico degli Smiths, con la sua incredibile malinconia domenicale; "Bengali in Platforms" vede ancora gli arrangiamenti di Reilly in primo piano, capaci di tingere ogni momento della canzone con gusto superbo; "Late night, Maudlin street" è uno showcase splendido per Reilly e soprattutto Paresi, che sfrutta il suo drumming intelligente al massimo, mentre Morrissey ci regala una delle migliori performance vocali del disco; "Suedehead" è un altro singolo di successo che ricorda gli Smiths nella sua capacità di essere allo stesso tempo leggero, arioso, distante eppure intrinsecamente malinconico - speriamo poi non vi stuferete a sentire ancora una volta citare la grandezza di Reilly alla chitarra; "The Ordinary Boys", la canzone più sixties del lotto; la verbosa "Hairdresser on fire"; "I don't mind if you forget me" con Reilly in uno dei suoi momenti più illuminanti dell'album.

Certo, le vette raggiunte dalla band non appartengono in questo momento a Morrissey (e forse non gli apparterranno mai), perché Street, Reilly e Paresi non sono in un rapporto alla pari con Morrissey ma ne sono i collaboratori a servizio - quindi manca qualcuno che magari abbia il coraggio di dirgli che "Little man, what now?" interrompe un po' il flusso del disco e che "Angel, angel down we go together" magari è troppo smithsiana, e "Break down the family" pallosa.

Fa gioco a sé la bizzarra "Margaret on the Guillotine", divertissement acustico che chiude l'album con il 'sogno' di Morrissey di vedere la Thatcher niente meno che ghigliottinata.

E così, dopo avere ascoltato l'album con attenzione, sfidiamo chiunque a pensare che a così pochi mesi da uno scioglimento così doloroso, Morrissey avesse già in sé un intero album di canzoni così riuscite e intense. Segnale più promettente di così per il prosieguo della vita artistica non poteva esserci. Per un fan degli Smiths, un disco irrinunciabile.

- Red

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