venerdì 23 marzo 2018

Iron Maiden: "Virtual XI" (1998)



Per quanto si possa dire che Virtual XI sia un disco di merda, rendiamogli almeno un merito, ossia quello di essere stato il catalizzatore per una delle reunion più bramate della storia.






Ma facciamo un passettino indietro: gli Iron Maiden degli anni ’80 hanno inanellato una serie di sette dischi che, qualitativamente parlando, oscillano fra il grandioso e il capolavoro. Gli anni '90 cominciano con l’abbandono di Adrian Smith, rimpiazzato da Janick Gers, e il gruppo perde la bussola, subendo un’involuzione paurosa. Da qui in seguito solo un paio di pezzi fantastici come "Fear of the Dark", "Afraid to Shoot Strangers" e pochi altri riescono a sfamare i fan di vecchia data, poi il colpo di grazia, anche Bruce Dickinson fa le valigie e se ne va.

Il nuovo cantante è un tale Blaze Bayley, con cui la Vergine di Ferro incide subito il decimo disco da studio, "The X Factor", un flop colossale dove c’è ben poco da salvare, e soprattutto dove la band mostra un ulteriore crollo di ispirazione a livello compositivo. Il nuovo arrivato è causa integrante del problema, cantando alla Dickinson senza possederne le qualità e le caratteristiche vocali, davvero pessima la sua performance, un peccato anche perché nella sua precedente band (i Wolfsbane) aveva offerto prestazioni brillati e si era dimostrato un buon frontman. Ma semplicemente non era adatto per prendere il posto dietro al microfono negli Iron Maiden.

Con "Virtual XI" Bayley corregge il tiro, non provando più a scimmiottare Dickinson ma calcando linee vocali più adatte alle sue corde, ma nel complesso il risultato non è che sia migliore. E ciò che desta maggiori perplessità è l’utilizzo delle tastiere e dei synth a opera di Michael Kenney (storico turnista dei Maiden dal 1990 in poi) e dello stesso Steve Harris: se in "Somewhere in Time" avevano aggiunto quel tocco di classe in più alle composizioni e in "Seventh Son of a Seventh Son" erano diventate parte integrante dell’evoluzione stilistica (poi abbandonata) del gruppo, qua risultano invadenti e fuori luogo se non addirittura fastidiose, e soprattutto le modulazioni risultano di scarsa fattura.

L’album si apre con "Futureal", classica opener dalla formula collaudata per dare un contentino ai fan, un riff portante diretto dal sapore classico accompagnato da strofe accattivanti e un refrain breve e anthemico, la stessa formula che poi adotteranno ad ogni futuro album per pezzi come "The Wicker Man", "The Rainmaker" o "Different World". Niente di che, poco longeva e molto prevedibile, prestazione di Bayley non troppo convincente ma in fondo nemmeno mediocre come in precedenza, il pezzo comunque dal vivo rivitalizzato da Dickinson fa anche la sua porca figura.

Il peggio del peggio arriva subito dopo con "The Angel and the Gambler", scelto addirittura come singolo di lancio del disco, prolissa e inconcludente all’inverosimile, dieci minuti di un piattume sconcertante, suoni di tastiera osceni (Steve per favore, tieni giù le mani da quei tasti!) e un ritornello banalissimo e scontato ripetuto allo sfinimento. Per citare le immortali parole di un famoso aspirante cantante, questa canzone rappresenta la sintesi della disgrazia, l’apice dell’apoteosi della schifezza… Che triste caduta di stile per quella che era (e sarebbe ancora) la più grande band metal della storia. Peggio di così non si può fare.

Almeno "Virtual XI" può puntare su "Clansman" per provare a salvarsi dall’ennesimo disastro, pezzo epico ed evocativo sullo stile di composizioni quali "Rhyme of the Ancient Mariner", "Alexander the Great" o "Seventh Son of a Seventh Son", questa volta gli Iron ci conducono nel viaggio a ritroso nel tempo all’epoca dei clan nelle highlands a far conoscenza con William Wallace. Effettivamente erano un bel po’ di anni che la band non componeva qualcosa di questa caratura, anche se pure stavolta - purtroppo - Harris alle tastiere da prova di grande mediocrità.

Non c’è molto altro da salvare, giusto "Lightning Strikes Twice" e "When Two Worlds Collide" sono quasi dignitose, giocate su tempi lenti dal mood decadente in cui Bayley si trova maggiormente a proprio agio. Da cestinare la pessima "Don’t Look to the Eyes of a Stranger", "The Educated Fool" (nonostante una parte strumentale che mette in mostra sprazzi di classe di quella gloriosa band che ricordavamo, ora relegati a mestieranti di lusso) e l’inutile, conclusiva "Como Estais Amigos", unico pezzo firmato da Gers, che tratta la guerra per il dominio delle Falklands tra Inghilterra e Argentina.

Questo è quanto. Le conseguenze di questa sciagura di disco furono l’incazzatura dei fan e le relative deludenti vendite, il disco solista di Dickinson "Accident of Birth" surclassò Virtual XI, di cui pure il tour fu un fallimento. La band non tardò a correre ai ripari, silurando Bayley e lavorando per una reunion che finalmente sul finire degli anni '90 arrivò, riportando a casa non solo Dickinson ma anche il figliol prodigo Adrian Smith, per la gioia di tutti quanti. Tutto è bene quel che finisce bene.

- Supergiovane

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