I Vanilla Fudge avevano ottenuto un buon risultato di pubblico con il loro disco di debutto omonimo, costruito su cover trasformate in brani di hard rock psichedelico in stile post-hendrixiano. Una tipologia di musica che avrebbe influenzato progressive rock e hard rock allo stesso modo. Il secondo album, beh, diciamo che non fu altrettanto riuscito. Forse il concept '300 anni di musica riassunti in 30 minuti' non è stata una grande idea.
I quattro protagonisti della vicenda - Carmine Appice, batteria; Tim Bogert, basso; Vince Martell, chitarre; Mark Stein, piano e organo - avevano però qualche lacuna nell'aspetto compositivo, leggi: il primo disco era solo di cover, e anche per il secondo non si fidavano molto del proprio talento.
Per quanto potessero essere discutibili le loro prime composizioni, però, possiamo essere abbastanza certi che non sarebbero mai state discutibili quanto l'idea dietro al loro secondo album, "The Beat Goes On", una delle operazione più bizzarre mai concepite nella storia del rock. Basti guardare i titoli dei brani e gli autori delle tracce.
Bisogna sentire per credere che qualcuno abbia provato a fare seriamente una cosa del genere: un disco che vuole riassumere trecento anni di musica in due facciate di un LP, con frammenti di brani di Mozart, Beethoven, Stephen Foster, Cole Porter, Elvis Presley, Beatles, con le diverse parti unite dall'uso ricorrente del tema di "The Beat Goes On" di Sonny & Cher.
L'idea è parto della mente del produttore Shadow Morton (anche se, nel contempo, ce l'aveva avuta anche il chitarrista dei Byrds Roger McGuinn. Ma Gram Parsons lo convinse ad abbandonarla e a incidere "Sweetheart of the Rodeo" invece). Altra idea di Morton è quella di sprecare otto minuti con registrazioni delle voci di uomini importanti del ventesimo secolo, da Neville Chamberlaine a Winston Churchill.
Alla fine l'opera si chiude con "The Merchant", la seconda composizione originale dei Vanilla Fudge stessi, interpolato con "The Game is Over", colonna sonora del film omonimo, composta da Jean Pierre Bourtayre e Jean Bouchety.
Questo album, chiaramente frutto di menti esaltate, probabilmente affette da sostanze psicotrope, è chiaramente assurdo, non serve neanche ascoltare il disco per capire che non avrebbe mai potuto trasformarsi in un successo. Eppure, il risultato non è da buttare: è solo stortissimo. E preso in sé e per sé, anche dotato di senso dell'umorismo e autoironia. In particolare, la ripresa di Beethoven in un contesto di rock psichedelico, con organo hammond impazzito, funziona straordinariamente bene. Forse se concepito in un modo meno didascalico, e scegliendo con maggiore cura le fonti da saccheggiare, si sarebbe anche potuto portare a casa un altro risultato.
- Prog Fox
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