Il Duca Bianco con "Low" dà il via alla trilogia berlinese, in un periodo creativo passato con personaggi del calibro di Brian Eno, Iggy Pop e Tony Visconti, e incide uno dei primi capolavori della new wave e un disco fondante per tutta la fine del decennio (e l'inizio di quello successivo).
(il disco completo si può ascoltare qui:https://www.youtube.com/
1976, Europa continentale. Bowie è appena fuggito a gambe levate da Los Angeles, teatro del “periodo più cupo della sua vita”: nella sua villa californiana, nutrendosi solo di latte, peperoni e cocaina, Bowie toccherà il fondo del suo abisso, tra paranoia e oscuri riti esoterici culminati in un esorcismo ad opera di una “maga bianca”. Sugli scaffali è da poco arrivato “Station to station”, un capolavoro, un disco di transizione tra il glam-funk rock precedente e ciò che verrà dopo, ovvero… il futuro. Il futuro di Bowie, ma anche una bella fetta di futuro del Rock tutto. Assistito dal fido produttore Tony Visconti, e affiancato durante la lavorazione da Brian Eno, il cantante inglese si appresta a scrivere la storia e gettare le fondamenta per la musica del decennio successivo.
Bowie prenderà il soggiorno europeo come un’occasione per liberarsi dai fantasmi delle sue “vite precedenti”, da Ziggy Stardust e dal Maggiore Tom, dagli eccessi tossici. È l’alba della sua incarnazione più iconica, lo smilzo duca bianco annunciato in “Station to station”, minimalista ed enigmatico, sofisticato ed ermetico. In questi nuovi panni, Bowie prima produce “The idiot” di Iggy Pop, e poi si muove verso la preparazione del suo nuovo lavoro. Le registrazioni avverranno tra un castello parigino (poi definito “infestato da fantasmi” da Bowie stesso), la Svizzera e Berlino. In quest’ultima città Bowie finirà per trasferirsi e vivere per i seguenti due anni, e la serie di tre dischi, cominciata proprio da questo “Low”, prenderà il nome di Trilogia Berlinese.
Caratteristica principale della Trilogia è la suddivisione di ciascun album in due parti ben distinte: il lato A, caratterizzato dalle composizioni più simili alla forma-canzone, o comunque più brevi e tradizionali; e il lato B fatto di composizioni strumentali dilatate e sperimentazioni ardimentose. "Low" inaugura questa struttura: se brani del lato A sono più (“Always crashing in the same car”, “Be my wife”, “Breaking glass” ) o meno (“Sound and vision”, “What in the world”) riconducibili alla struttura classica del brano pop-rock, il lato B è un labirinto crepuscolare e suggestivo. A svettare, in particolare, la quintessenziale “Warszawa”, 8 minuti di preghiera laica espressa in un linguaggio inventato, principale contributo compositivo di Eno a quest’album (ma la sua presenza sarà comunque decisiva per l’introduzione delle “strategie oblique”, il gioco di carte usato per dare indicazioni ai musicisti e influenzarne l’apporto in modo aleatorio).
L’ambient music è a un passo da qui, e non potrebbe essere altrimenti, vista la presenza di Eno. Ma anche la world music sembra non essere lontana, viste le atmosfere esotiche presenti un po’ ovunque nel disco, soprattutto in "Warszawa" e "Subterraneans". Appena più in profondità ci sono già il post-punk, la new wave e gli anni ’80, i Tuxedomoon e gli Ultravox e i Japan. Nel momento in cui il punk impone il ritorno alle “radici” del rock, alla rabbia e alla visceralità, Bowie spicca il volo verso un empireo di eleganza e sofisticazione senza paragoni, atmosfere che potranno vantare nel corso dei successivi decenni svariati tentativi di imitazione. Di questi, ben pochi potranno reggere il confronto con l’originale. Del resto non serve certamente che noi, umili ultimi arrivati della critica rock online, vi spieghiamo chi è, o quanto è grande Bowie. Ci limitiamo all’antico adagio, repetita iuvant: per favore, per cortesia e per amore del Cielo, ascoltate Low se già non lo avete fatto.
- Spartaco Ughi
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