martedì 31 maggio 2016

Jeff Beck: "Wired" (1976)



(Qui potrete ascoltare il disco completo: https://www.youtube.com/watch?v=Ay44iMfnKQ0)
Dopo l'eccelso "Blow by Blow" (ottobre 1974), il primo disco puramente strumentale della propria carriera, Jeff Beck si trovò proiettato nell'Olimpo degli eroi della sei corde fusion. Uno status nuovo per uno che era stato un ragazzo terribile della chitarra blues e hard - e che Beck decise di fruttare al massimo, richiamando i collaboratori e amici George Martin (sì, proprio il produttore dei Beatles) e Max Middleton (tastierista da anni con Beck), e affiancando loro Jan Hammer e Michael Walden (rispettivamente tastiere e batteria della disciolta Mahavishnu Orchestra), e il sessonman americano Wilbur Bascomb al basso.

Guidato dalla sua proverbiale indolenza, Jeff Beck affida ai propri collaboratori anche il compito di comporre - Middleton, Bascomb e Hammer scrivono un pezzo l'uno, Walden ne scrive ben quattro, e per completare l'album la band incide una splendida versione di "Goodbye pork pie hat" (https://www.youtube.com/watch?v=ImxM4Rj5pOQ), elegia funebre del contrabbassista e compositore jazz Charles Mingus all'amico sassofonista Lester Young, risalente al 1959, con lo strumento di Beck che suona originale e variegato - sembra di ascoltare almeno due o tre chitarristi diversi scambiarsi le parti soliste, mentre è sempre l'inventivo ragazzo del Surrey ad esprimere la propria poliedricità alla sei corde.

Assieme a "Blow by Blow", "Wired" è probabilmente il disco di Jeff Beck maggiormente apprezzato dalla critica - e con buone ragioni. Come nella migliore fusion, le performance sono illuminanti e tecnicamente mostruose, ma poggiano sempre su architetture musicali dalla composizione intelligente e profonda. "Led Boots" (https://www.youtube.com/watch?v=BQIdjHcS4m4), omaggio di Middleton ai Led Zeppelin, utilizza il gusto hard funk e il suono di piano elettrico sfruttato dalla band inglese con quelli che all'epoca erano i loro ultimi due dischi ("Houses of the Holy" e "Physical Graffiti"). "Come dancing" è un altro funk rock in cui Jeff la fa da padrone assoluto, attaccandoci in particolare con solo dalla distorsione devastante. "Head for backstage pass" chiude il lato A all'insegna del basso funky di Bascomb, che dopo un ottimo solo introduttivo lascia spazio alle personalità multiple di Jeff che tanto amiamo.

Il lato B incomincia da "Blue Wind" di Jan Hammer, che per l'occasione si piazza anche dietro alla batteria. Il pezzo si apre singhiozzante, per poi tramutarsi in una cavalcata strumentale più linearmente rockeggiante, con un potente riff di chitarra. Hammer si ritaglia anche lo spazio per un assolo al fulmicotone.

"Sophie" (https://www.youtube.com/watch?v=HvLobZeY9bk) parte come una ballad deliziosa, prima di trasformarsi in una cavalcata di jazz rock in cui Beck si inerpica su sentieri mirabili tracciati da Walden conducendoci con lui con la grazia e l'abilità di una capra di montagna, con riff di chitarra eccezionali. "Play with me" vede Beck lanciarsi in un'altra serie di riff melodiosi sopra al pattern di piano elettrico di Middleton, lasciando invece che lo spazio solistico sia appannaggio del sintetizzatore di Hammer.

"Love is green", un delicato duetto fra Jeff Beck e Michael Walden (che qui si esprime al pianoforte) conclude il disco in tono quasi dimesso, come a donarci un meditabondo notturno per depressurizzarci dall'esuberanza e dall'energia del resto dell'album prima di concludere l'ascolto e tornare alle incombenze del quotidiano.

Difficile trovare una 'canzone migliore' in un disco suonato così egregiamente, e con così tante idee nelle melodie e negli arrangiamenti. Certo si parla di un album che è uno dei vertici del rock strumentale degli anni settanta, un ponte musicale fra UK e USA, e fra blues rock e funk jazz, fra i più solidi e ben realizzati di quei floridi anni.

- Prog Fox

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