"Unit Structures" di Cecil Taylor è uno di quei dischi che fa tremare le vene e i polsi al recensore a cui viene affibbiato (nonché a qualsiasi persona più o meno sana di mente che provi ad ascoltarlo): un album di free jazz all'ennesima potenza, inciso il 19 maggio del 1966.
Rimasto fuori dallo studio di registrazione per qualcosa come quattro anni, Cecil Taylor vi torna per incidere "Unit Structures" uno degli album più radicali della musica degli anni sessanta: provare per credere.
Questo è free jazz all'ennesima potenza. Se i poveri musicofili del 1966 pensavano che il disco più caotico, rumoroso e inaffrontabile della storia della musica fino ad allora fosse "Ascension" di John Coltrane, dovettero avere una brutta sorpresa.
Questo disco è assolutamente sconsigliato non solo ai cuori deboli, ma a tutti quelli che non siano veri e propri maratoneti dell'avanguardia.
L'iniziale "Steps" è una delle cose più devastanti prodotte dalla musica acustica, anche se, inquietantemente, l'effetto ipnotico di questo tipo di non-melodie, di improvvisazioni atonali, è di avere quasi senso, portando l'ascoltatore in una sorta di legame empatico con le note.
Molto più semplice relazionarsi con le improvvisazioni di "Enter, evening", che si svolgono su toni molto più soffusi, in cui la bravura dei musicisti nelle coloriture da un po' di sollievo all'orecchio provato dalla batosta iniziale.
La lunga suite che dà il titolo al disco arriva per terza coi suoi quasi 18 minuti. Si tratta di una via di mezzo fra i brani precedenti: le cascate di note sono meno radicali, anche se non mancano passaggi in cui i tre fiati esprimono solo brutalità quasi gratuite; dal caos, occasionalmente emerge un breve assolo o un tema melodico, che poi viene riassorbito dal magma informe del brano. Le "unit structures" appaiono all'ascoltatore ignorante (come il vostro umile scribacchino) come una sequela di 'eventi', come lampi, o raffiche di vento, o squarci di luna fra le nuvole, in un mare in tempesta in piena notte. Ma a volte emergono magnifici anche momenti di potenza e violenza (come attorno al quarto d'ora del brano).
Il disco si conclude con la (relativamente) breve "Tales", sette minuti in gran parte di pianoforte solista, in cui Cecil Taylor affronta un ampio spettro di possibilità dello strumento, dal pianissimo ai cluster di note più aggressivi, coadiuvato in questo aspetto dal drumming slegatissimo di Andrew Cyrille.
Insomma, che dire di "Unit Structures"? Sicuramente il movimento free jazz è stato un passaggio fondamentale della musica moderna, e uno dei momenti più radicali dell'avanguardia. Arrivati fin qui non si poteva che tornare indietro (e infatti così è stato): si demoliscono melodia, ritmo, composizione, tonalità, si demolisce tutto. Eppure questa operazione devastante, se portata a compimento da artisti come Cecil Taylor e la sua band, hanno il fascino sublime della libertà. Non a caso, mentre nel jazz - eccetto figure di nicchia - si sarebbe abbandonato perlopiù il genere per tornare su percorsi più consuetudinari, negli anni sessanta e settanta il linguaggio free faceva timidamente capolino nell'opera di artisti rock che vi si approcciavano con rispetto e un po' di paura - da Jimi Hendrix ai Grateful Dead, dagli Area agli Henry Cow, passando per i Pierrot Lunaire e persino per la chitarra di Terry Kath dei Chicago.
- Prog Fox
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