Usciva vent'anni fa oggi "la Malavita", terzo album dei Baustelle e forse loro capolavoro. Passato da una casa indipendente a una major, il quintetto poliziano - di cui per l'ultima volta fa parte il tastierista Fabrizio Massara - realizza un lavoro maturo e brillante, capace di rinverdire per gli anni zero i fasti della canzone d'autore, con un riuscito equilibrismo con le citazioni del passato.
(disco completo: https://tinyurl.com/mwrfxhzf)
I Baustelle arrivano al terzo album con una solida formazione a cinque che vede i membri fondatori Francesco Bianconi (voce & chitarre) e Claudio Brasini (voce & chitarre) ormai accompagnati da anni dai tastieristi Rachele Bastreghi (anche seconda voce del complesso) e Fabrizio Massara. Ai quattro si è aggiunto nel 2002 il batterista Claudio Chiari. Dopo il successo di critica dei primi due album ("Sussidiario illustrato della giovinezza", 2000; "la moda del lento", 2002), il gruppo firma per una multinazionale discografica ed è pronto a fare il grande salto a colpi di videoclip e promozione radiofonica.
Dopo l'obbligatoria introduzione strumentale "Cronaca Nera", che ha la stessa utilità delle introduzioni dei dischi di epic metal, cioè nessuna, il disco parte con due canzoni-manifesto, "la guerra è finita", adolescenza di provincia vista da dei post-adolescenti con la sindrome di Peter Pan, un po' come tutti i rocker, e "Sergio", un commovente omaggio alla malattia mentale. Lo sguardo dei Baustelle si rivolge agli strani, agli estranei, agli stranieri, agli ultimi, ma lo fa non con una profonda partecipazione emotiva, quanto più con un umanismo superficiale e tutto sommato borghese (poche cose sono più borghesi del 'guarda che bello, come siamo pazzi', citando Francesco de Gregori, poche cose sono più borghesi delle trasgressioni convenzionali, con il verso 'l'erba ti fa male se la fumi senza stile', tratto da "Un romantico a Milano", che fa venire voglia di riascoltare "la droga fa male" di Claudio Bisio e Rocco Tanica).
I testi, tutti di Francesco Bianconi (mentre la composizione delle musiche è distribuita più equamente fra i musicisti), mostrano la fascinazione del cantante per la città di Milano, citando tra l'altro "le canzoni della mala", interpretate da Ornella Vanoni negli anni sessanta durante la sua fase folk-popolare (vedi la ripetitiva "Revolver" e la piaciona ma briosa "Un romantico a Milano", che ricorda peraltro i Blur e il britpop e si avvale di un ritmo shuffle e di una chitarrina in stile surf), ma la vera ispirazione, la vita reale vissuta dai Baustelle, è di provincia, e le canzoni sulla provincia sono quelle che straziano il cuore e colpiscono fino in fondo, come la grigia "i provinciali", "A vita bassa" (ispirata a un articolo scritto dall'insegnante delle superiori Marco Lodoli riguardo alla perdita di speranza dei giovani della periferia urbana) e la sardonica "Il nulla". Queste tre canzoni ripetono lo schema musicale di "la guerra è finita" e di "Sergio", con ritmiche tutte molto simili e di derivazione pop punk tanto essenziali quanto efficaci, che ne fanno certamente i momenti più riusciti dell'album.
Ci sono poi già le avvisaglie di certe indulgenze prossime venture, come "il corvo Joe", una buona canzone in cui però Bianconi continua a ritagliarsi un ruolo da poeta maledetto e incompreso ('è la vita mia esser simbolo di paura e di morte, sono tenebre i miei abiti') che si concilia molto male sia con la biografia del personaggio sia con il crescente successo del gruppo, oppure "Perché una ragazza d'oggi può uccidersi" (con versi discretamente inaccettabili quali 'ma la causa scatennate, il motivo vero siamo io e te, io che l'ho tradita, tu che le sei stata amica').
Nonostante un paio di momenti meno riusciti, "la Malavita" è un ottimo disco, che con il predecessore "la moda del lento" e il successivo "Amen" rappresenta il punto più alto della carriera del gruppo. La vena melodica dei musicisti non sempre viene premiata dalla voce di Francesco Bianconi, personaggio troppo consapevole del suo essere personaggio per sembrare davvero autentico, infuso talvolta di una vena da postmoderno perennemente annoiato che non premia sempre le sue stesse liriche, che forse avrebbero beneficiato di un maggiore uso della voce di Rachele Bastreghi. In ogni caso, il disco rimane brillante, intelligente, ed una efficace testimonianza di cosa fosse l'indie in Italia negli anni zero.
- Prog Fox
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