Tre settimane fa oggi gli Suede hanno pubblicato, il 5 di questo mese, il loro decimo album "Antidepressants". Il nuovo vestito dark/new wave e l'uso, moderato ma efficace, di testi recitati dà grande spolvero a queste canzoni emotivamente potenti, riportando la band inglese a livelli che non raggiungeva da tre decenni.
(disco completo qui: https://tinyurl.com/yr9tfn2y)
Spartaco vostro deve ammettere di sentirsi scioccato dalle righe che sta scrivendo. In parte perché ha deciso di dare priorità alla scrittura di questa recensione, quando ci sono album come "1.Outside" di Bowie che celebrano il compleanno; in parte perché non ci si aspettava che gli Suede potessero pubblicare un nuovo capolavoro a questo punto della loro storia. E invece eccoci qua.
Le 11 canzoni per 39 minuti di "Antidepressants" rappresentano senza alcun dubbio l'apice della produzione dei londinesi nella loro formazione corrente, quella con Richard Oakes e Neil Codling a sostituire il chitarrista/tastierista Bernard Butler, fuoriuscito sbattendo la porta più di 30 anni fa. Tre decenni, uno scioglimento e sei dischi dopo, Brett Anderson e la band, completata dai veterani Simon Gilbert alla batteria e Mat Osman al basso, trovano una quadra insperata, raggiunta dodici anni dopo la reunion.
L'album, tanto per cominciare, contiene alcuni degli inni rock più efficaci scritti dal gruppo: "Disintegrate", "Dancing with the Europeans", "Sweet Kid" e specialmente "Broken Music for Broken People" concentrano tutto il pathos di cui il carismatico, splendido 58enne Brett Anderson è capace, decorandolo con ritornelli assassini, melodie al limite della perfezione e arrangiamenti semplici ma ricchi di dinamica, cambi di passo e suoni impeccabili; ma neanche il reparto delle ballate non molla un cazzo, con pezzi come "Somewhere Between an Atom and a Star", "June Rain" e "Life Is Endless, Life is a Moment" che appartengono all'empireo dei classici della band, le "Pantomime Horse", le "The Power" e le "Still Life", per intenderci, glii Suede citano i Joy Division e i Cure con disinvoltura (ma anche un po' gli Editors) mantenendo al contempo lo stile distinto e riconoscibile che li ha resi un culto. La qualità dei pezzi restanti non fa che aumentare il credito dovuto all'album: lo sghembo recitato punk della title track, ma anche le energetiche "The Sound and the Summer" e "Criminale Ways", così come la cupa "Trance State", trascendono qualsiasi definizione di filler, dando all'album una consistenza, una coerenza e un tiro che mai avevamo sentito dopo "Dog Man Star".
Chi scrive deve confessare che aveva frettolosamente scartato il precedente "Autofiction" come un lavoro decadente e poco ispirato: un ascolto svolto con questo suo discendente fresco nella memoria rende evidente che buona parte delle scelte stilistiche di "Antidepressants" rappresentano perfezionamento di quelle compiute sul predecessore, a partire dal suono reminescente del post-punk (ascoltare "It's Always the Quiet Ones" per credere); qui e solo qui, però, il quintetto londinese ritorna a darci quello che forse non ci aspettavamo più da loro: una collezione di capolavori di pop-rock epico, fuori dal tempo, interpretati con classe infinita e prodotti, finalmente, senza eccessi elettronico-sinfonici ad annacquarne la forza espressiva. Fortunatamente, sviluppare una dipendenza da questi "Antidepressants" non ha effetti collaterali.
- Spartaco Ughi
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