Esce il 30 maggio di venti anni fa "Don't believe the truth", album in studio degli Oasis. Un ottimo disco che vede il gruppo ritornare se non proprio ai fasti degli esordi comunque a buoni risultati artistici, anche grazie a un lavoro di gruppo pienamente collaborativo. Il disco era stato piratato e diffuso online il 3 maggio da Napster, in un'era di internet ancora giovane e dove ancora queste cose avevano un peso.
(disco completo: https://tinyurl.com/56adnu67)
Non c’è niente da fare. Gli Oasis quando stanno nei casini, soprattutto creativi, riescono a sfornare degli ottimi lavori. Non una replica del mitico e difficilissimo esordio “Definitely Maybe”, che fu un parto artistico travagliato e stressante, in cui fu Noel l’unico a sobbarcarsi tutte le fatiche; questo “Don't Believe the Truth” vede per la seconda volta il concorso di tutti i membri della band nel processo creativo, sempre con le evidenti difficoltà nel conciliare tutte le anime. Ma a differenza del precedente, grezzo e un po’ pasticciato “Heathen Chemistry”, qui finalmente la chimica dei Nostri trova una quadra essenziale.
Produzione non facile, dicevamo: l’album doveva uscire nel 2004, ma slitta fatalmente di un anno, perché Liam si è incapricciato coi Death in Vegas e vuole continuare a collaborare con loro (ricordate “Scorpio Rising”?), mentre Noel si è rotto le scatole di questi funk-rock-psichedelici. Nel frattempo, il batterista Alan White se ne va, si dice per problemi privati, ma non si saprà mai veramente il perché. Subentra il figlio di Ringo Starr, Zak Starkey, preso in leasing dagli Who, entusiasti delle sue performance. In definitiva un buon acquisto, ma a scadenza. Il tutto allunga tempi e logistica della preparazione dell’album, considerando che la produzione, sotto la guida esperta del nuovo produttore Dave Sardy, si svolge tra Londra e Los Angeles (location imposta dallo stesso Sardy), quasi in stile U2. L’album rappresenta un vero e proprio mélange di collaborazioni della band, e anche se perde in coerenza brit-pop, guadagna in sperimentazioni ed estro personali.
Andiamo ad analizzare i singoli brani. L’album si apre con “Turn Up the Sun”, scritto da Andy Bell durante una notte piovosa in Svezia: una delle migliori intro acustiche dei Nostri, con un'esplosione di chitarre elettriche e batteria a seguire. Doveva essere il titolo eponimo dell'album, ma gli preferirono “Don't Believe the Truth”, commento sarcastico della band alle voci di un imminente scioglimento in quel periodo. “Mucky Fingers”, di Noel, rimanda ai brani feroci e caciaroni dei primi Velvet Underground (in salsa Death in Vegas), con il suo ritmo fin troppo penetrante e un bell’assolo di armonica. “Lyla” è il primo singolo dell'album, piuttosto furbo e orecchiabile; seguendo il Gallagherverso, pare che Lyla sia la sorella di Sally di "Don't Look Back in Anger". “Love Like a Bomb”, la prima canzone dell’album scritta da Liam, è una ballata intensa, ma non del tutto riuscita, sempre secondo il giudizio insindacabile sottoscritto; pare la fonte d’ispirazione sia stata l’attrice Julie Christie. “The Importance of Being Idle”, secondo singolo dell'album, inno alla pigrizia con splendide influenze dei Kinks, è diventato da subito uno dei gioielli della corona della band e a buona ragione. Non può lasciare indifferenti e, per certi versi, ha influenzato lo stile di Noel anche in future sue scritture, ma senza raggiungere l’apice di questo splendido brano. “The Meaning of Soul”, un punk vorrei-ma-non-posso, scritto da Liam, che come sempre ha gli strumenti e le conoscenze giuste, ma si applica poco, meglio ritornare sulle cose note. Ovvero, “Guess God Thinks I'm Abel”, ballata acustica che inizia l’introspezione di Liam sui temi della fratellanza e del conflitto con il fratello; ancora grezzo il testo, che sbanda nello smielato (“Let's go find a rainbow”???) e suona molto come un pensierino infantile, ma lo perdoniamo, si fa ascoltare. “Part of the Queue”, riempitivo dimenticabile cantato da Noel, ispirata dalle file nei supermercati. “Keep the Dream Alive”, secondo brano composto da Andy Bell, con una buona alternanza tra chitarre acustiche ed elettriche, e un assolo finale che ricorda alla lontana “Live Forever”. “A Bell Will Ring”, scritta da Gem Archer, dove troviamo le immancabili sonorità psichedeliche, alza il tiro per esecuzione e sonorità, ed è uno dei momenti più alti dell'album. Come chicca finale, la versione Oasis di “A Day in the Life”, ovvero “Let There Be Love”, ballata conclusiva cantata da entrambi i fratelli Gallagher (non accadeva dai tempi di “Acquiesce” e non accadrà più); brano spettacolare, scritto anni prima e mai pubblicato, finalmente incluso in questo album su giusta insistenza del produttore. Odiatissima dai due fratelli, fu eseguita dal vivo solo due volte: in versione acustica solo Noel a Radio DeeJay e durante un concerto a Santiago del Cile nel 2006.
Come il precedente album, anche questo soffrì di un pesante leak in Internet, a causa di una leggerezza di Apple che lo pubblicò sull’iTunes tedesco e il buon vecchio Napster ci regalò l'intero album il 3 maggio 2005, ventisette giorni prima della data di pubblicazione ufficiale. Sembra di parlare del medioevo, ma sono passati solo vent’anni, e oggi una cosa del genere (per due album di fila e per gli Oasis!) sarebbe inconcepibile.
“Don't Believe the Truth” ha venduto quanto “Be Here Now” e fu accolto positivamente dalla critica e di certo si tratta di un ritorno alla forma essenziale della band, ma non ai fasti di “(What's the Story) Morning Glory?” (come alcuni hanno scritto), dato che non è esente da alcune sbavature. Una cosa va detta, in conclusione: ci ha finalmente regalato un’esperienza di gruppo organica e anche artisticamente fertile.
- Agent Smith
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