sabato 29 luglio 2023

Nevermore: "Enemies of Reality" (2003)

Vent'anni fa usciva "Enemies of Reality" dei Nevermore, chiamati alla prova per consacrarsi definitivamente dopo il successo del capolavoro assoluto "Dead Heart in a Dead World". Nonostante le precarie condizioni psicofisiche del cantante Warner Dane e la sfiducia nella casa discografica, responsabile di un missaggio tremendo e non all'altezza, il disco è un altro valido tassello della discografia dei nostri eroi.

(disco completo: https://tinyurl.com/y8cb25p9)

"Dead Heart in a Dead World" ha rappresentato uno di quei dischi imprescindibili che hanno segnato un’epoca, di quelli che escono solo una volta, e non capiterà più di sentire qualcosa di simile. Dopo i primi anni da underdogs, finalmente il gruppo può godere finalmente della fama che merita anche da parte del grande pubblico. La parte difficile viene però adesso, quando sei sulla cresta dell’onda e sei chiamato a dare continuità alla tua carriera e produrre qualcosa che non faccia rimpiangere il lavoro precedente.

Il gruppo era al massimo del suo splendore e in piena ispirazione creativa, finalmente aveva trovato la propria dimensione con la formazione a quattro con il solo Jeff Loomis alle chitarre, a cui spettava il compito della stesura della parte strumentale. Cosa avrebbe potuto mai andare storto? <br><br>

Sfortunatamente, andarono per il verso sbagliato diverse cose. Nelle puntate precedenti (le recensioni passate), abbiamo narrato del periodo complicato passato da Warrel Dane, con relative conseguenze dovute ai suoi abusi di alcool, droghe e farmaci. Lo ritroviamo qui, nel 2003, ancora alle prese con i suoi demoni. Di frequente lo troviamo presentarsi sul palco ubriaco e in pessime condizioni fisiche, offrendo prestazioni scadenti, di certo non alla sua altezza, né tantomeno del gruppo. Le tensioni interne, confermate negli anni successivi, non ne vogliono sapere di placarsi. La loro etichetta, la Century Media, consapevole dei loro conflitti e dell’inaffidabilità di Dane, da contratto ha ancora un album da fargli incidere, e probabilmente a causa della scarsa fiducia che nutre verso loro, stanzia un budget da minimo sindacale per le registrazioni dell’album.

Non potendosi più permettere Andy Sneap, con il quale avevano lavorato su Dead Heart in a Dead World facendo la loro fortuna (e anche la sua, dato che da quel momento diverrà uno dei producer più richiesti in ambito metal), e nemmeno più Neil Kermon, con cui avevano registrato tutti i primi lavori, ripiegano su Kelly Gray, ex chitarrista di svariati gruppi fra cui i Queensryche che aveva lasciato da poco, e che aveva anche lavorato occasionalmente come ingegnere del suono per nomi poco noti (a eccezione di Dokken e Candlebox). Sarà stata l’inesperienza, sarà stata la sua inadeguatezza a certe sonorità, o sarà stato il poco tempo a disposizione complice i fondi striminziti, fatto sta che il mixaggio dell’album fu un autentico disastro. Suoni ruvidi di chitarra e basso impastati fra loro e volumi della batteria sballati resero arduo l’ascolto anche per i timpani meno raffinati, una produzione pessima sotto tutti i punti di vista, a meno che non si voglia intenzionalmente azionare l’autodistruzione delle casse del proprio stereo. Pare assurdo che nel 2003 si sia dovuto sentire qualcosa del genere, per giunta da parte di un gruppo del prestigio dei Nevermore. Perlomeno, appena rinegoziato un nuovo contratto discografico con la Century Media, essa mise una toppa al danno procurato: meno di due anni dopo l’etichetta pubblicò una nuova versione dell’album interamente remixata e rimasterizzata, stavolta a opera di Andy Sneap, che finalmente rese giustizia all’album.

Si, perché la qualità di "Enemies of Reality", nonostante la prima sciagurata edizione, è altissima, come del resto i Nevermore ci hanno abituato. Loomis in particolare, tecnica a parte, è davvero ispirato. Lo testimoniano soprattutto due pezzi quali I,Voyager, un connubio dello speed/heavy ottantiano degli esordi e poliritmie care ai Meshuggah (di cui anche Loomis è fan), e la title track posta in apertura, il drumming di Van Williams è vario e dinamico, Dane impeccabile (perlomeno, in studio) nella costruzione ed esecuzione delle sue teatrali linee vocali.

La semiballad Tomorrow Turned Into Yesterday ha il compito di bissare il successo di pubblico di Believe in Nothing, non ci riesce, ma ci va vicino. Who Decides è un’altra semiballad, decisamente più drammatica e sofferta, che alterna tempi cadenzati a deflagrazioni al fulmicotone. Letteralmente devastante è la conclusiva Seed Awakening, il pezzo più violento e veloce mai composto dal gruppo, come devastante è il groove di Ambivalent.

Never Purify abbina il mood gothic di Dreaming Neon Black a una struttura ritmica più intricata sulla lunghezza d’onda dell’attitudine compositiva dei Nevermore moderni, e anche il pezzo “minore” dell’album, Create the Infinite, presenta riffing di tutto rispetto. Noumenon è una sorta di intermezzo (quasi) interamente strumentale dalla grande intensità, non a caso verrà molto spesso adoperato come outro alla chiusura delle loro esibizioni live. <br><br>

Così si chiude un disco certamente molto positivo ma che soffre troppo il paragone con il suo predecessore. Forse quaranta minuti complessivi per un disco dei Nevermore sono pochi, e forse un altro paio di pezzi di buon livello avrebbero permesso di fare a Enemies of Reality un salto qualitativo maggiore. Sta di fatto che si tratta di un’altra tappa fondamentale del gruppo. <br><br>

- Supergiovane

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