venerdì 9 giugno 2023

Radiohead: "Hail to the Thief" (2003)

Esce il 9 giugno di vent'anni fa "Hail to the thief", album dei Radiohead.



(disco completo: )

Guardare indietro a vent'anni fa rivela quanto poco sia cambiato, in questo pazzo, pazzo mondo: il ventunesimo secolo, e i tratti distintivi dell'inconscio collettivo di oggigiorno, sono il frutto dei semi piantati in quegli anni. La Guerra al Terrore scatenata dalla ferita dell'11 settembre, e con essa la sensazione che l'età dell'oro della democrazia sia seppellita, definisce lo stato d'incertezza che ancora oggi ci accompagna, tra conflitti alle porte dell'Europa, crisi economiche, pandemie e un generale senso di instabilità che fa pensare, semplificando, che la pacchia sia finita. Aggiungiamo che il definitivo erodersi della fiducia nelle classi politiche e nei media, che nel ventesimo secolo era appannaggio delle frange "weird" della popolazione, è divenuta una ruggine sempre più aggressiva negli ingranaggi della società occidentale. Spesso, con più di qualche ragione. Thom Yorke non è nuovo né a posizioni anti-establishment, tanto è vero che già in "Lucky", sei anni prima, si faceva beffe di un invito ricevuto da parte di Tony Blair; né al neomillenarismo, come dimostrato dal concept in due parti "The Rise and Fall of the Second Roman Empire", noto nei cataloghi come "Kid A" e "Amnesiac". Questi due dischi, per livello del songwriting e impatto sul concetto stesso di "pop" a cavallo del millennio, possono essere paragonati forse al "White Album" dei Beatles: una rivoluzione di forma supportata da una sostanza autoriale (e tecnologica) di eccellenza. L'avvento dell'era di George W Bush, agevolato da dubbi riguardo alle elezioni in Florida, sono il carburante ideale per un nuovo incubo alt-pop a firma Radiohead.

Ma dove si va, come ci si comporta, dopo aver rilasciato due dischi che, per molti versi, trascendono il proprio genere e diventano puro distillato di zeitgeist? Come i Talking Heads di "Speaking in Tongues" vent'anni prima, i Radiohead (oltre a Yorke ci sono i fratelli John e Colin Greenwood, Ed O'Brien e Philip Selway, i cui ruoli strumentali sono a questo punto poco inquadrabili) guardano al passato. Dopo una sbronza di elettronica, tra ondes Martenot e ossessive manipolazioni in studio, il quintetto ritorna ad un approccio più immediato, alla più sobria registrazione in presa diretta, almeno in una certa misura. I suoni elettronici, i campionamenti e la post-produzione rimangono presenti, così come le atmosfere plumbee e oppressive dei due dischi precedenti, ma le chitarre ritornano protagoniste, specie nei singoli: "There, there" entra prepotentemente nel novero dei classici dei Radiohead, con la sua onnipresente sezione ritmica e le sue chitarre sferraglianti; "Go to Sleep", tutta cambi di tempo vertiginosi e chitarre postprodotte, rinverdisce i fasti dell'album "The Bends"; l'aperta citazione Orwelliana di "2+2=5" (nel 2003 non era ancora una pratica stucchevole, che ci crediate o no) cerca la sintesi tra "Ok Computer" e "Kid A", partendo électro e arrivando quasi punk rock. Tutto "Hail to the Thief" cerca di reinnestare l'attitudine rock'n'roll dei '90 sul nuovo suono distintivo delle teste di radio, ma l'esperimento non funziona sempre. Ad eccezione dei singoli e di una manciata di altre canzoni (la piovosa "We Suck Young Blood", la conclusiva "A Wolf at the Door"), "Hail to the Thief" non riesce del tutto a trasformare la nigredo in albedo, rimanendo schiacciato tra i quattro capolavori che lo precedono e il seguente "In Rainbows", che completa la fusione tra i due "modi" dei Radiohead, pur perdendo l'emotività e l'urgenza del disco in esame oggi.

Lungi da chi scrive sottintendere che "Hail to the Thief" non sia un grande disco, beninteso. Le sue asperità, le imperfezioni, l'evidente rabbiosa emotività di tutta la band e i testi di Yorke lo rendono il disco più immediato dei Radiohead, quello con meno filtri; il livello del songwriting è forse il meno fulgido, tra i sei super-classici di Yorke e soci, ma raggiunge anche i picchi stellari per cui i cinque di Oxford sono famosi (e "There, There" è la migliore canzone mai scritta dai Radiohead, secondo il vostro umile recensore).

Persino quando non al massimo delle loro possibilità, i Radiohead di inizio millennio erano in grado di produrre canzoni memorabili e album eccezionali. Su tutto il resto, volendo, si può discutere.

- Spartaco Ughi

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