venerdì 28 ottobre 2022

Ultravox: "Quartet" (1982)

Esce nell'ottobre di quarant'anni fa "Quartet", album degli Ultravox, fra i massimi esponenti della new wave britannica. Per cercare di trovare nuovi stimoli, il gruppo sceglie come produttore nientemeno che George Martin, ma l'esito, per quanto più che buono, non si distanzia troppo dallo stile dei dischi precedenti.



(disco completo qui: https://tinyurl.com/2x7b85mz

Il tutto, si dice, non è mai uguale alla somma delle parti: talvolta c’è sinergia tra le componenti, e il prodotto è superiore alla qualità di ciascuno dei suoi componenti; altre volte, la montagna partorisce un topolino. Da qui bisogna partire per parlare del terzo disco di una delle formazioni più importanti dei primi ’80, gli Ultravox II con Midge Ure a voce e chitarra, prodotti per l’occasione da George Martin, un uomo che, nel caso non lo sapeste, porta il soprannome di “quinto Beatle”. Uno dei produttori più celebr(at)i della storia del rock, al lavoro con gli alfieri del Synth-Rock, i pionieri del New Romantic, e in generale una delle band più importanti della New Wave tutta. Cosa può andare storto?

Ad essere sinceri, niente va davvero storto. “Quartet” è un disco di canzoni di assoluto livello, con almeno un paio di classici da mettere nella lista di brani antologici della band: di sicuro “Visions in Blue”, a cui sentiamo di poter aggiungere l’altro hit-single “Hymn”, entrambe canzoni quintessenzialmente Ultravox-esche, nel mood e nelle melodie, oltre ovviamente all’interpretazione vocale di Ure. Notevoli anche il mid-tempo “We Came to Dance” (altro singolo) e la conclusiva “The Song (We Go)”, entrambe capaci di catturare l’orecchio, se non direttamente il cuore, dell’ascoltatore. Niente va davvero storto, dunque, perché il resto dei brani non è certo da buttare, eppure un dubbio sibila strisciante ai margini dei nostri pensieri: a cosa serve avere George effing-Martin in cabina di regia, se il disco suona esattamente come i due precedenti, prodotti dall’amicone Conny Plank, e come il successivo, autoprodotto?

Ed è qui che il discorso sulla somma delle parti ritorna centrale: gli Ultravox del 1982 sono una band già perfettamente matura, autosufficiente, il cui suono è codificato al punto che niente può essere tolto o aggiunto. Le idee, tante e buone, sono state sciorinate con tale profusione che già arrivati al terzo album (più i tre della precedente era-Foxx), per tutte le buone intenzioni e la volontà dei nostri, quello che l’ascoltatore si ritrova in cuffia è l’ennesimo aggiustamento del tiro di “Vienna”. Ciò è vero al punto che si potrebbero prendere i due album nominati, più “Rage in Eden”, e rimescolarne il contenuto senza causare alcuno shock all’ascoltatore, cosa che non sarebbe possibile fare con coevi come, per dire, i Duran Duran o gli OMD. La precoce maturità comporta anche la mancanza di nuove direzioni in cui dirigersi, e la loro carriera ne soffrirà terribilmente.

Forse il segreto delle sinergie positive è che ci devono essere dei vuoti e dei pieni, degli incastri tra le parti; gli Ultravox sono già perfetti e rotondi, e in retrospettiva si può dire che non avessero nessun orizzonte per evolversi. L’ascolto è consigliato, non tanto per la peculiarità di questa situazione, quanto perché comunque le canzoni, per la maggior parte, spaccano.

- Spartaco Ughi

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