venerdì 28 ottobre 2022

Sigur Ros: "()" (2002)

Esce il 28 ottobre di venti anni fa (), terzo album degli islandsi Sigur Ros. Altra pietra miliare del post rock degli anni zero, è un disco di una bellezza struggente e lancinante, profondamente malinconico e limpido come aria ghiacciata dell'Artico.



(disco completo qui: https://tinyurl.com/ywadh2kx)

Sostituito il batterista Ágúst Ævar Gunnarsson con Orri Páll Dýrason, gli islandesi Sigur Ros si avvicinano alla prova del terzo album decisi ad alzare la posta artistica della loro produzione, restringendo la propria diversificazione creativa e focalizzandosi pienamente sulle coordinate più atmosferiche, dal suono freddo eppure profondamente umano, dolcissimo eppure struggente, melodico eppure nostalgico.

Gli aspetti formali del disco sono qui particolarmente rilevanti, e non solo una postura pretenziosa. I brani vengono originariamente presentati senza alcun titolo (anche se questi poi verranno forniti successivamente dal gruppo), esattamente come l'album, e per continuare la chiave minimalista della presentazione, Jon Thor Birgisson sceglie di cantare l'intero disco in hopelandic, gioco di parole con icelandic (ovvero 'islandese') che nasconde un grammelot privo di senso compiuto.

Il disco è diviso in due parti, le prime quattro canzoni, di contenuto maggiormente struggente e malinconico, e le seconde quattro, più oscure e offuscate. Il primo brano, "Untitled #1 (Vaka)", oltre a introdurre il tema nostalgico della prima metà, è anche il più bello di tutto il disco, di cui costituisce un intenso manifesto, intollerabile se ascoltato accompagnato dal suo straziante video.

A partire dal secondo brano, "Untitled #2 (Fyrsta)", troviamo una maggiore regressione minimalista, che ricorda il percorso artistico sviluppato da gruppi come i Talk Talk e i Cocteau Twins. "Untitled #3 (Samkeity)" traccia una rotta che collega il precedente album "Agaetys Byrjun" e "Untitled (Vaka)"; "Untitled #4 (Njósnavélin)" riesce addirittura a suonare ottimistica, come uno sprazzo di sole fra nuvole lacrimose.

La seconda parte, più triste, è introdotta da "Untitled #5 (Álafoss)", epico crescendo crepuscolare tra Radiohead e Pink Floyd. "Untited #6 (E-Bow)", così chiamata per l'uso dell'e-bow da parte del bassista Georg Hólm, è forse il pezzo che più assomiglia a un classico brano post rock, derivato soprattutto dallo stile in piano-forte dei Mogwai.

A questo punto i brani, che già dall'inizio superavano abbondantemente i sei minuti, diventano sempre più dilatati, al punto che le ultime due canzoni durano rispettivamente tredici e dodici minuti. Se l'impatto emotivo dei lentissimi crescendo rimane affascinante, l'incantesimo ipnotico tessuto dai Sigur Ros inizia a spezzarsi per la lunghezza eccessiva del disco. Per fare un esempio, in "Untitled #7 (Dauðalagið)" risulta un peccato dovere aspettare dieci minuti per la tempesta di neve, i tagli di tastiere, le urla allucinate di Birgisson nel suo finale da brividi. A oltre un'ora dall'inizio del disco, "Untitled #8 (Popplagið)" rimane invece un'appendice essenzialmente superflua.

() è un album estremamente difficile da ascoltare. Difficile perché la sua commovente bellezza taglia come il ghiaccio islandese, difficile perché la scelta dei Sigur Ros è quella di premere sull'acceleratore della totale, assoluta malinconia senza compromesso. Dolore e bellezza, gelida, neoclassica e purissima, intensa, lancinante, come il bianco accecante che rende ciechi e folli gli esploratori artici e antartici.

- Prog Fox

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