sabato 24 settembre 2022

Peter Gabriel: "Up" (2002)

Usciva il 24 settembre di vent'anni fa "Up", album di Peter Gabriel che interrompeva un decennio dal precedente disco di inediti. Un album lungo e meditabondo, pieno di ballate e di brani estesi, dopo il quale Peter, come autore, non ha più inciso nulla, limitandosi a un lungo rimuginare sul proprio passato.



(disco completo qui: https://tinyurl.com/2p8xcj2a)

Dieci anni erano passati, dall’ultimo disco di inediti di Peter Gabriel, frontman dei Genesis in gioventù, sofisticatissimo autore pop a metà tra mainstream e sperimentazione, dopo. Gli umori sono foschi, a cavallo del millennio, specie dopo quella data speciale per l’occidente sul finire dell’estate del 2001, e “Up” è intriso di di mood plumbei e chiaroscuri pesanti. Un disco in bianco e nero, come la copertina, emblematica non solo delle sue atmosfere, ma anche dei suoi ritmi, ipnotici come un rallentatore di una goccia in movimento.

L’opening “Darkness” è un ottovolante che alterna il pieno di una versione sotto sedativi dei King Crimson del periodo con il vuoto di una strofa eterea, solo piano, voce, e rumori ambient; si scivola poi nel buon singolo “Growing Up”. A seguire, ben tre ballad dense e poliedriche come “Sky Blue”, “No Way Out” e “I Grieve”, non male singolarmente ma un po’ esagerate messe l’una in fila all’altra, soprattutto perché, salvo la conclusiva “The Drop”, nessuno dei brani dell’album è sotto i 6 minuti di lunghezza, e la maggior parte è abbondantemente sopra i 7. Il singolo pop-jazz “The Barry Williams Show”, col suo ritmo e la sua melodia memorabile, ci risveglia dal torpore oppiaceo in cui eravamo precipitati ma è seguito da un’altra ballad, “My Head Sounds Like This”, che oltretutto ruba la sua idea più caratteristica da “The Spark that Bled” dei Flaming Lips. Di nuovo ci scuotono la notevole “More than this”, ottima sia nella melodia che nel ritmo sostenuto, e il duetto (con Nusrat Fateh Ali Khan) “Signal to noise”, che scuote la formula delle ballad del disco con un crescendo coinvolgente. Il disco infine si chiude chetandosi nel delicato pezzo di solo piano e voce “The Drop”.

Alcune cose si possono dire con certezza, su “Up”: innanzitutto, Gabriel non è un autore che rilasci dischi per contratto, o per ragioni meramente economiche, quindi quest’album è esattamente ciò che lui voleva, pubblicato quando era considerato pronto, non quando la casa discografica ha fatto pressione. Inoltre, resta un disco estremamente divisivo: da un lato chi ama le sue atmosfere e le sue canzoni dilatate, i suoi sontuosi arrangiamenti e le melodie talvolta un po’ nascoste; dall’altro, chi lo considera noioso, pomposo, lontano dalla qualità, altissima, delle produzioni migliori del camaleontico inglese.

Chi scrive, pur non amandolo, ammira “Up” per la rinuncia ai compromessi. Certo, i 67 minuti di durata potrebbero facilmente essere ridotti a 50, o persino 40, senza perdersi un solo highlight, anzi dando all’insieme forza maggiore; e certo, il numero di ballate è quasi allarmante, e forse maschera, assieme ad una produzione maestosa, un’ispirazione non più continua come ai bei tempi. Non per niente “Up” rimane, vent’anni dopo, l’ultimo disco di inediti di Gabriel. Ma rimane più che godibile, con almeno metà delle tracce ben all’altezza della produzione antecedente di Peter nostro. Per chi ama il genere, può bastare.

- Spartaco Ughi

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