martedì 27 settembre 2022

Depeche Mode: "A Broken Frame" (1982)

Usciva il 27 settembre di quarant'anni fa "A Broken Frame", secondo album dei Depeche Mode. Dopo un primo disco di synth pop dominato dal tastierista Vince Clarke, andatosene per fondare Yazoo e poi Erasure, il peso creativo passa sulle spalle di Martin Gore, che qui per forza di cose risulta ancora acerbo e derivativo. Per completare il quartetto magico e raggiungere la maturità, il gruppo deve aspettare l'arrivo di Alan Wilder.



(disco completo qui: https://tinyurl.com/3sw4vjw6)

“Speak and Spell” aveva appioppato ai Depeche Mode l’elettrizzante hype di “una delle tante band synthpop di inizio ’80”; i Depeche Mode, dal canto loro, avevano perso il leader Vince Clarke, partito per altri lidi. Martin Gore si trovò così sulle spalle il peso del songwriting, accompagnato da Dave Gahan, volto e voce ancora da ragazzino, e Andrew Fletcher, everyman con ruoli principalmente organizzativi e di PR (tra parentesi: rest in peace, Fletch), e un album da scrivere in fretta e furia.

Il risultato, pur rivalutato in tempi recenti da una fetta di fan oltranzisti (e cultori del synthpop prima maniera, supponiamo), è, come l’esordio, un altro disco acerbo. La mancanza di un terzo tastierista si sente nella minore varietà di soluzioni, sia sonore che di arrangiamento, rispetto al già non complesso esordio, e Gore mostra qualche timido barbaglio dell’autore che diverrà, ma non c’è traccia né dei testi cupi, né delle melodie geniali, né dello spleen che associamo tipicamente a lui; di certo, dovere scrivere materiale per riempire un disco in pochi mesi, quando nei precedenti vent’anni aveva scritto sì e no 5 canzoni complete, non aiuta; e di Gahan, della sua giovinezza fisica e vocale, abbiamo già detto.

Certo, i singoli non sono malissimo: “Leave in Silence” ha già qualche piccola striatura dark, con la sua atmosfera notturna e malinconica; “See You” e “The Meaning of Love” sono comunque gradevoli, coi loro impasti vocali che sembrano fare il verso ai Beatles e le loro melodie catchy, ma noi e voi, o lettori, conosciamo “Just can’t get enough” e non è un caso che quella sia un classico inossidabile e queste, invece, no, senza volerne a nessuno. Il discorso può essere esteso al resto delle canzoni, alcune interessanti (“Monument”, “Shouldn’t have done that”), alcune persino toccanti (“The sun and the rainfall”), altre poco significative (“Satellite”, lo strumentale “Nothing to Fear”).

“A Broken Frame” è ben lontano dall’essere un disco sgradevole, ma è certamente un disco piatto, monocorde, più palestra dell’ardimento per il songwriting di Gore che esponente di uno dei cataloghi più ricchi di grandi canzoni della storia degli eighties. Alan Wilder entrerà in pianta stabile nella band un annetto più tardi, e porterà un’attitudine sperimentale che trascinerà i Mode verso il loro destino (in concorso con la maturazione di Gore come autore e a quella di Gahan come interprete, ovviamente). A lasciare il segno di “A Broken Frame” nella storia, allora, c’è la copertina, una foto scattata nelle campagne inglesi che è stata inclusa tra le foto più belle mai scattate dalla rivista “Life”. Ma nel 1982, i Depeche Mode sono ancora “una delle tane band synthpop degli anni ’80”.

- Spartaco Ughi

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