mercoledì 28 settembre 2022

Muse: "The 2nd Law" (2012)

Esce dieci anni fa oggi "The 2nd Law", il controverso album che per molti critici e appassionati della band segna la fine del lungo decennio creativo della formazione inglese, passata da rockband fra le più importanti e di successo degli anni zero a un disco sconcertante e dall'ispirazione incerta.



(disco completo qui: https://tinyurl.com/mnn2bz24)

“Spartaco, rompicoglioni d’un insolente” si sta chiedendo qualche lettore proprio in questo momento, “perché continuare a scrivere recensioni dei Muse come se fossero email piene di disprezzo per una ex che non sei ancora riuscito a lasciarti definitivamente alle spalle? Non sarebbe meglio, come dire, andare avanti?” Sì, amico strawman, sarebbe meglio, se queste fossero ancora recensioni e non una sorta di seduta di terapia, come invece sono diventate. Questa che mi appresto a scrivere sarebbe stata molto, ma molto più astiosa, se non fosse che “Will of the People” riesce a mettere in buona luce questo disastro di un album. Eccoci qui, chi scrive ha detto qualcosa di positivo su “The 2nd Law”, l’album che è, quasi all’unanimità, considerato la pietra tombale sulla carriera dei Muse. Dopo essere faticosamente riusciti a emergere nel mainstream con una sorta di “trilogia della cospirazione” iniziata con il buon successo commerciale di “Absolution”, continuata con uno dei singoli più audaci degli anni ’00 (“Knights of Cydonia”) in uno dei dischi più anticonformisti e controversi dell’epoca (“Black Holes and Revelations”, ancora oggi un capolavoro di weird che di notte si trasforma in materiale da classifica)) e solidificata con il primo tour negli stadi dopo “The Resistance”, il power trio concepisce e (auto)produce un disco sconcertante.

L’ispirazione strabordante che il aveva portati a scrivere decine di b-sides nelle primissime fasi della carriera si affievolisce fino a “The Resistance”, primo disco a non vantare bonus track o b-sides propriamente dette (solo cover e remix), ed è, al successivo appuntamento della loro parabola, completamente esaurita. Ci sono omaggi “velati” come l’intro “Supremacy”, pesantemente ispirata alla zeppeliana “Kashmir” con in mezzo un nuovo intermezzo alla Morricone; ci sono veri e propri plagi come “Survival”, vero e proprio ricalco di “The Gash” dei Flaming Lips, o “The 2nd Law: Isolated System” che è uno spaventapasseri vestito con stracci ricavati da “Heat Miser” dei Massive Attack. Ci sono versioni discount di canzoni degli U2 come “The Big Freeze”, e canzonacce pop-rock un tanto al chilo vestite all’ultima moda come “Madness” e “Follow Me”; ci sono mezze idee rachitiche, tenute in piedi da lussuosi arrangiamenti di fiati, come “Panic Station”. Ci sono autoriciclaggi come “Explorers”, che prende una piccola b-side da 3 minuti come “Shine”, pubblicata dalla band stessa più di dieci anni prima, e la trasforma in una noiosissima, pomposa ballad orchestrale da 6 minuti, con in più una mezza citazione dei Queen a fare il palo. “The 2nd Law: Unsustainable”, la meno peggio del lotto, è poco più di muzak da colonna sonora di second’ordine, ed è tutto dire. La pistola fumante però, la prova regina che la situazione è grave, è portata dai due brani scritti e cantati dal bassista Chris Wolstenholme. Nessuno sano di mente potrebbe mai pensare di pubblicare cose che sembrano scarti dei Porcupine Tree, a meno che non ci sia l’obbligo contrattuale di pubblicare 10 tracce in un disco e nessuna, ma proprio nessuna, altra canzone pronta.

Non c’è nulla, nulla da salvare in questo disco. Non si salvano le prove individuali dei musicisti, qui al nadir delle proprie prestazioni: irriconoscibile il basso di Wolstenholme, impigrito Howard alla batteria, insufficiente anche Bellamy che ha perso tutt’un tratto l’abilità di scrivere riff memorabili, ha pochi momenti davvero riconoscibili negli assoli (“Madness” perlomeno è catchy, a voler essere generosi) e si tiene molto lontano dal pianoforte, tradendo uno dei marchi di fabbrica della band fino a quel punto. Il tentativo di mascherare la pochezza delle idee proposte con arrangiamenti eccessivi ricorda quelle vecchie signore un po’ volgari, coperte di trucco, intrise di profumo, disperate per un po’ di attenzione (ora che ci penso, questa descrizione potrebbe adattarsi bene a certi uomini, inclusi ex presidenti del consiglio cantanti. La par condicio sarà già finita quando esce ‘sta recensione, vero vecchia volpe?).

“Sì, questo disco fa schifo, Spartaco. Ma a noi non ce ne frega niente, vecchio mio. Perché non riesci a lasciarlo andare, assieme alla carriera di questi tre ultraquarantenni imbolsiti, imborghesiti, annoiati?” Perché il lato romantico è diventato un lato nostalgico, e questo è un segno di invecchiamento che non può che far paura. Ascoltare le vecchie b-side, anche quelle più sceme come “Pink Ego Box” o “Crying Shame” (per tacere di capolavori psichedelici come “Do we Need this?”, rock fuoriserie come “Fury”, punk-rock di classe come “Coma”, rock-funk come “Jimmy Kane”), confrontarle con singoli come “Follow Me”, e desiderare che siano ancora gli anni ’00, sognare un futuro radioso di sol dell’avvenire e non la distopia da cinque minuti a mezzanotte di oggigiorno è ciò che tocca a questo povero recensore, che forse riuscirà, un giorno, a perdonare i Muse per questo disco, e per “Drones” e per “Will of the People”, forse quel giorno arriverà presto. Ma quel giorno non è oggi.

- Spartaco Ughi

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