venerdì 26 agosto 2022

Coldplay: "A Rush of Blood to the Head" (2002)

Vent'anni fa oggi usciva "A rush of blood to the head" dei Coldplay, uno dei dischi fondamentali degli anni zero. Il grande pubblico che non aveva capito la svolta sperimentale dei Radiohead si innamorò grazie a "Clocks", "God put a smile upon your face" e a "The Scientist" della next big thing della musica inglese.



(disco completo: https://tinyurl.com/35rm5u69)

In quell’agosto del 2002 si metteva una canzone sola, nonostante le cronache ci ricordino che sulla vetta svettava “Kiss Kiss” di tale Holly Valance, oggi condannata ad un giusto oblio. La musica in questione proveniva dalla sublime chitarra iniziale di “In My Place” dei Coldplay, primo singolo del 5 agosto, uscito per anticipare di qualche settimana l’album “A Rush of Blood to the Head”, apice indiscussa nella giovane produzione della band di Chris Martin.

Due anni dopo “Parachutes”, l’album che li ha fatti conoscere a (quasi) tutti, i Coldplay aggiornano la loro formula personalissima di un anti-britpop morbido e acustico, fatto integralmente di melodia e testi leggeri, ma potente dal punto di vista emotivo, per entrare così di diritto nell’affollato gotha del rock alternativo britannico. Ricordiamo quindi “Parachutes”, album d’esordio dei Nostri, un piccolo gioiellino grezzo di indie fatto con cura e soprattutto senza l’assurda pretesa di cavalcare le onde pop-rock dei primi anni 2000 (quelle sirene che hanno corrotto ben più di un gruppo, Oasis in primis), bensì concepito fuori dai barocchismi elettronici della new-new wave e ben ancorato ad una tradizione melodica che ha reso grandi tutti i maggiori gruppi albionici. Allo stesso modo “A Rush of Blood to the Head” è la grande finestra spalancata sul mondo, la conferma che le premesse delle prime esibizioni nei garage e dei primi zoppicanti demo possono trasformarsi da bruco in farfalla, mantenendo tuttavia uno stile unico e senza compromessi, semplicemente alzando l’asticella della qualità musicale.

L’album è un insieme magico di ballate e grandi successi, il cui ensemble si può sintetizzare in una frase molto altisonante, ma appropriata: “stato di grazia”. Ed è proprio in questo stato che sono state partorite le migliori canzoni dei Nostri. Se il genere vi è confacente e trovate che i Coldplay abbiano in qualche modo contribuito alla colonna sonora della vostra vita, non potete che trovarvi d’accordo con me, ed inserirlo senza indugio tra quegli album che possono essere ascoltati senza skippare neanche una traccia. Pochi ma eccellenti.

“Politik” forse sarebbe da riascoltare in questi tempi bislacchi, proprio in prossimità di elezioni imminenti; guardiamo la Terra dallo spazio e contempliamo le nostre miserie da una maggiore altitudine. Forse poi potremmo aprire gli occhi.
“In My Place” ha avuto quel tipo successo stra-meritato nell’immediato, anche se oggi forse straborda le iniziali intenzioni della band. La canzone è sublime e ci apre ad una meravigliosa celebrazione dello spirito, ma è anche vero che è così dannatamente ancorata al tempo passato. Perduti anche noi, oh yeah.
“God Put a Smile upon Your Face” e le cose si fanno davvero più serie. Splendida melodia che si innesta con grazia innaturale in un video in b/n tutto da riscoprire (citiamo l’ottimo attore caratterista Paddy Considine in un ruolo straordinariamente pirandelliano).

Mi sorprende sempre che una canzone come “The Scientist” sia stata apprezzata da un così vasto pubblico. In fondo, credo sia la canzone che ogni gruppo indie vorrebbe incidere e con la quale poi arrivare in vetta alle classifiche: una vera contraddizione in termini. Ballata eccelsa che è la diretta evoluzione di “Yellow”. Oggi ovviamente il testo sarebbe accusato di stalking da parte di nutrite minoranze arrabbiate.

“Clocks”, il tempo che fugge e lascia senza fiato. Un degno omaggio allo stile dei Nostri nel tempo passato.
La sincopata “Daylight” ci impone un momento di rigore, forse eccessivo, nella metà dell’album, ma senza pretese è un eccellente riempitivo. “Green Eyes” è un tuffo in atmosfere che definirei quasi irlandesi, da ballata facile e in crescendo, ottima per un falò davanti al mare. Ma anche in macchina, nel traffico, cantare il ritornello a squarciagola è un toccasana.
“Warning Sign” poteva essere anche meglio di quello che è, ma ovviamente ci accontentiamo anche se lamentiamo poca inventiva nelle strofe. Rimane un’eccellente canzone dei Coldplay.

Quando tocchiamo “A Whisper” temiamo che l’album sia in calando, perché questa è di certo, dal mio punto di vista, la canzone più debole dell’album. Non ha un tono definito ed è chiaramente un (buon) riempitivo, anche se datato.
“A Rush of Blood to the Head”, title track, mantiene appieno le promesse. Eccellente balata lenta, fino allo sfinimento, che riesce con poche note a diventare un movimento crescente e dirompente, trasformandosi nella vera spina dorsale poetica dell’intero album. Imperdibile.
“Amsterdam”, quasi una ghost track sussurrata, sublime nel suo modesto ma inesauribile crescendo, trascinante ed esaltante, ci porta senza soluzione di continuità all’inizio dell’album, in un’involontaria Ringkomposition che riparte dalla batteria di “Politik”.

Splendido album, che continuiamo imperterriti noi originali fan ad ascoltare, a distanza di tanti anni. Cercando di dimenticare il tradimento infame di una band splendida come i Coldplay, sacrificati a se stessi sull’altare elettrico del dittatore Mylo Xyloto, guerriero squallido de noantri, pronipote di sua maestà il Denaro.

- Agent Smith

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