sabato 17 ottobre 2020

Nevermore: "Dead Heart in a Dead World" (2000)

Oggi si celebra il ventennale di "Dead Heart in a Dead World", quarto album del superbo gruppo heavy metal americano Nevermore, uno dei più grandi gruppi dell'heavy tutto degli ultimi trent'anni. All'album fu tributata una giusta acclamazione della critica e un buon esito di vendite, anche grazie al successo del singolo "Believe in Nothing" e alla cover di "The Sound of Silence" di Simon & Garfunkel.



(qui l'album completo: https://tinyurl.com/yyrmomhn)

Ottobre 2000, vede la luce "Dead Heart in a Dead World", quarto full lenght da studio e album della definitiva consacrazione dei Nevermore, da Seattle. Senza girarci troppo intorno, si tratta di un lavoro epocale, che resterà impresso negli annali della storia del metal per sempre, uno degli apici di una delle band più importanti, personali, inimitabili, e sfortunatamente anche sottovalutate dal grande pubblico, che la scena del “metal evoluto” abbia mai potuto vantare.

Dismesse in parte le complesse trame techno-thrash dall’impianto progressive di "The Politics of Ecstasy", e il profondo umore nero dalla cadenza doom e gothicheggiante di un lavoro estremamente sofferto quale "Dreaming Neon Black", il gruppo guidato da Warrel Dane e Jeff Loomis rinnova nuovamente il proprio sound, e per farlo non inventa nulla, ma ripesca nuove idee dalle proprie origini, e dalle sonorità classiche, speed e thrash metal del periodo comprensivo della metà degli anni 80 e dei primi anni 90.

A livello di lineup la formazione ufficiale torna a quattro elementi, con il solo Loomis a occuparsi della composizione delle linee ritmiche e soliste di chitarra. Come turnista nelle date live verrà ingaggiato Chris Broderick (poi più avanti reclutato dai Megadeth), chitarrista tanto valido a livello tecnico e esecutivo quanto povero a livello di gusto compositivo. Cambia anche il produttore, viene congedato Neil Kermon e assunto Andy Sneap, che da lì a qualche anno diverrà uno dei producer più richiesto del campo. Quelle distorsioni ruvide e potenti dei lavori precedenti lasciano il posto in favore di un suono corposo e nitido, e perfettamente bilanciato. Viene dato maggiore risalto alla sezione ritmica in cui il motore portante è azionato dalle trame sonore di Loomis e impreziosito dal prezioso variegato drumming di Van Williams. Il basso viene certamente penalizzato, ma a dirla tutta, Jim Sheppard fra i quattro è nettamente il componente meno talentuoso e insostituibile del quartetto. Il suo ruolo da mestierante è più che adeguato alla sinergia del gruppo. Warrel Dane mantiene ancora saldamente le redini dell’aspetto concettuale del gruppo, provvedendo all’ideazione e alla stesura di tutti i pezzi. Le tematiche, sempre impegnate, restano le medesime: conflitti spirituali, morali e interiori, spiccata ostilità verso l’uso della religione come forma di controllo, forte criticità verso iniquità sociali.

Dicevamo in apertura, che si tratta del loro più popolare e più acclamato dai fans, difficile dire se si tratti del loro prodotto migliore in mezzo a una serie di masterpiece di livello assoluto quali i due precedenti album (il recensore, nella fattispecie io, indicherebbe "The Politics of Ecstasy" come apice della loro carriera). Complice di questo successo è sicuramente la canzone "Believe in Nothing", una powerballatona da manuale, una potenziale hit su cui poter costruire una carriera, e campare di rendita. Spesso, i Nevermore vengono identificati in questa composizione da chi non ha particolare confidenza con la discografia del gruppo.

Consci forse dell’appeal e della forte presa che un pezzo come questo può esercitare sul grande pubblico, la band ha deciso programmaticamente di proporla live solamente nella prima tranche del tour (eccezione fatta per giusto una manciata di particolari occasioni), quasi a volerne prendere le distanze e non voler venire identificati unicamente per essa.

Ma "Dead Heart in a Dead World" è anche e soprattutto l’album che presenta alcune delle composizioni più memorabili dei Nevermore, su tutte spicca la magistrale "Inside Four Walls" (fortemente critica verso il sistema legislativo e carcerario privato americano), pezzo altamente trascinante con in dotazione una carica di groove thrash di dimensioni spropositate, che culmina nel anthemico refrain e una serie di favolosi assoli di Loomis.

Un plauso va fatto alla creatività di Williams dietro le pelli, capace di elevare il livello dei pezzi grazie al suo estro. La forza dei Nevermore sta anche qua, nel non tralasciare mai l’approccio melodico e accattivante delle linee vocali applicato alle articolate trame ritmiche. A proposito di ciò, nell’album troviamo un altro caposaldo firmato Nevermore, "The Heart Collector", altra powerballad, stavolta dal sapore amarissimo da ingurgitare, in cui Dane sfodera una prestazione da manuale grazie alla sua indole interpretativa.

Fra i picchi assoluti dell’album e della carriera del gruppo spiccano anche il poderoso mid-tempo della frastornante "The River Dragon Has Come", pezzo che avvicenda gli ipnotici arpeggi iniziali a vigorosi riff metallici, e l’opener "Narcosynthesis", composizione dalla struttura squisitamente post-thrash in cui vengono avvicendati sia riff circolari che stoppati, e svariati cambi tempo. Da segnalare anche la cadenzata "Evolution 169", la malinconica "Insignificant" (grazie a un’altra prestazione maiuscola di Dane), la massiccia "Engines of Hate" (forse il pezzo dal più alto coefficiente tecnico del lotto, in cui però stavolta ne esce svantaggiata la costruzione delle linee vocali, non altrettanto ispirate come nel resto dell’album), e "We Disintegrate", pezzo che più si avvicina alle sonorità dei Sanctuary (il primo gruppo di Dane) e del metal classico priestiano.

Nell’album fa capolino anche la cover della celebre "The Sound of Silence" di Simon & Garfunkel, qua totalmente stravolta da renderla praticamente irriconoscibile. A chiudere "Dead Heart in a Dead World" provvede la title track, pezzo in cui il soffuso intro iniziale con tanto di “effetto vinile” è solo uno specchietto per le allodole, e prelude l’ennesimo innesco techno-thrash deflagrante.

Un’opera grandiosa che rispecchia il periodo di grazia e maggiore ispirazione dei quattro di Seattle, che però terranno fede alla propria reputazione di band maledetta a causa degli sbalzi d’umore e i problemi di gestione di Warrel Dane, continuando a singhiozzo a portare avanti la propria carriera malgrado intoppi e problematiche di ogni tipo. Una cosa è certa: nonostante un paio di ottimi album che seguiranno Dead Heart in a Dead World (ed escluso l’ultimo "The Obsidian Conspiracy", che lascerà molto amaro in bocca), i Nevermore non si attesteranno più sulle vette fin qui raggiunte.

- Supergiovane

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