lunedì 23 gennaio 2017

Pink Floyd: "Animals"

Schiacciato fra i dischi più famosi e acclamati dei Pink Floyd ("Dark side of the moon", "Wish you were here" e "The Wall"), composto da sole tre lunghissime tracce (e una breve intro e outro), in piena esplosione dell'era punk e disprezzo per tutto ciò che è cerebrale e progressive, "Animals", fatica di Waters-Gilmour-Mason-Wright pubblicata 40 anni fa esatti, ovvero il 23 gennaio del 1977, non ha mai goduto del prestigio dei suoi fratelli.

È difficile credere fino in fondo che la "Battersea Power Station" sia un posto concreto, davvero esistente in questo mondo.
Si fa fatica a pensare, nel caso in cui capitasse di passare nelle vicinanze e la si scorgesse (dato che in effetti si tratta di un controverso edificio realmente esistente, "bricks and mortar"), che si riuscirebbe mai ad evitare di essere colti da una sorta di sindrome di Stendhal alla vista delle iconiche ciminiere, rese ormai indelebili nella nostra retina cerebrale nella copertina di "Animals" dei Pink Floyd (1977).

Forse si impallidirebbe e si scorgerebbero davvero dei rosei maiali volteggiare nell'aria, forse non succederebbe niente, ma comunque sarebbe inevitabile pensare a Roger Waters che seduto in un parco londinese fuma, legge (rilegge) Orwell e pensa che in definitiva il mondo è pazzo.
Che il mondo è molto pazzo e che lui, però, ha capito quali sono le categorie umane in cui alberga il male e decide che vuole provare a parlarne; almeno raccontandole spera in una catarsi, se non altro personale. In una liberazione, in uno sfogo.
Quindi riflette e categorizza le umane genti in approfittatori, ipocriti, ignavi.
Pensa a quanto li odia, a quanto vorrebbe urlare loro tutto lo schifo che prova, intellettualmente ed umanamente, nei loro confronti.
Ma dato che ha probabilmente appena chiuso una pagina di un romanzo strano, molto strano, in cui si racconta di un cavallo che ara volenteroso e remissivo i campi sotto il comando vorace di altri animali, ecco che la metafora gli viene spontanea e migliore.
Pensa dunque ai maiali, ai cani, alle pecore.

Waters, diciamocelo, non è lucidissimo ma non è nemmeno davvero completamente pazzo e non ha bisogno di cure; quantomeno se gli riesce di mettere in musica e parole questi ritratti che gli ronzano in testa.
Ed allora ecco il disco.

Disco che, venendo al tema principale di queste note, riesce molto bene: ci sono outtake dal precedente "Wish You Were Here" adattate alla bisogna, certo, ma si tratta di un'opera coesa ed originale, scura e in un certo senso estrema ed ambivalente.
A doppia faccia nella forma e nei contenuti: il dito puntato e saccente di Waters nei testi è giudicante e sgradevole ma ammalianti sono i tessuti sonori (gli assoli di Gilmour, il puntuale tessuto sonoro Mason-Wright, le alchimie di Waters stesso).
Si perdona (almeno: chi scrive riesce benissimo a farlo) il tono papale, dogmatico ed in fondo autoassolutorio delle invettive proprio perchè il cerchio descritto si chiude in modo complessivamente coerente e sincero.
Perchè i brani (un opening, uno dedicato ad ognuna delle specie ed una chiusura simmetrica) restano miracolosi ed affascinanti, stratificati, progressivi e ricchi di sfumature da cogliere ad ogni ascolto.
Perchè, in definitiva, non si può che fare i conti (oggi più che mai, anche dopo 40 anni di psicoanalisi collettiva) con le nostre categorie inestirpabili di giudizio e di comportamento, così bene colte nell'impianto simbolico e concettuale di quest'opera.
Perchè il grugnire dei maiali, il latrato dei cani ed il belare pacifico e violentemente sommesso delle pecore sono sempre la colonna sonora dei nostri tempi.

Perchè alla fine l'auspicato riparo dai maiali che volano, dai cani che mordono e dalle pecore che temono lo si deve ancora, purtroppo, trovare.

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