domenica 16 agosto 2020

Eric Clapton: "Eric Clapton" (1970)

Veniva pubblicato cinquant'anni fa oggi il primo disco solista del chitarrista e cantante inglese Eric Clapton, che recava come titolo semplicemente il suo nome.



(potete trovare l'album completo qui: https://tinyurl.com/y68yl426) Alla fine del 1969, Eric Clapton è un uomo estremamente provato. Dopo le esperienze galvanizzanti con Yardbirds, John Mayall e Cream, Clapton è ritenuto uno dei massimi chitarristi della sua epoca, ma questa adorazione ormai è per lui una prigione. Se ne rende conto quando va in tour con il suo nuovo progetto, i Blind Faith. Insofferente durante le proprie esibizioni, prende l'abitudine di suonare anche con il gruppo spalla, costituito dalla coppia Delaney & Bonnie Bramlett, marito e moglie dediti a un roots rock ebbro di influenze country, soul e blues.

Quando il tour finisce, il 24 agosto 1969, Clapton molla i Blind Faith e scappa a fare concerti con Delaney & Bonnie, coi quali registra un disco dal vivo a dicembre. Nello stesso periodo, inizia le incisioni del suo primo disco solista, omonimo, nel quale cinque pezzi su undici saranno composti da Eric assieme a Delaney. Non solo, ma fra i musicisti sono coinvolti oltre ai coniugi Bramlett anche molti americani del loro entourage, come il bassista Carl Radle, il batterista Jim Gordon, l'organista e cantante Bobby Whitlock, la cantante Rita Coolidge, il trombettista Jim Price e il sassofonista Bobby Keys. Leon Russell suona il piano e compone un pezzo con Bramlett ("Lonesome and a long way from home") e uno con Clapton ("Blues Power"). Completano il disco due canzoni di Clapton ("Easy Now" e "Bottle of Red Wine"), un pezzo scritto da Delaney con il futuro Blues Brother Steve Cropper ("Told you for the last time") e la cover di "After Midnight" di J.J. Cale, uno dei nuovi idoli musicali del chitarrista inglese.



Per Clapton sarà un periodo straordinariamente fertile e confuso: inizia a bere smodatamente e drogarsi di eroina e cocaina con Bobby Whitlock; si innamora di Patty, la moglie dell'amico George Harrison, il quale ha accettato l'invito di Eric a unirsi a lui, Delaney e Bobby in tour; e partecipa alle incisioni del triplo LP di Harrison stesso, "All things must pass", mentre forma un nuovo gruppo, chiamato Derek and the Dominoes, sempre per rimanere nascosto al grande pubblico, con Whitlock, Radle e Gordon.

Intanto, il 16 agosto del 1970 esce "Eric Clapton", album che costituisce una delusione per i suoi fan che si aspettano assoli incendiari, blues rock supersonico e scelte di carriera più simili a quelle dei suoi vecchi compari Jeff Beck e Jimmy Page, che stanno bruciando hard rock con i propri gruppi.

Lo strumentale "Slunky" ci introduce subito all'atmosfera r&b e soul prediletta da Clapton in questo periodo, con interventi dei fiati prima di un assolo che lascia comprendere quanto il presunto ritrarsi di Eric dai ruoli in primo piano sia più una opinione che un fatto: non c'è nulla che non vada nelle sue linee chitarristiche, e forse il problema è più che i fan vogliono canzoni alla Cream che non una perplessità nella qualità della sua chitarra.

Certo il soul blues "Bad Boy", l'inusuale incrocio di tex mex, soul e gospel di "Lonesome and a long way from home" o la cover di "After Midnight", con ruoli prominenti per organo, fiati e cori, si proiettano molto più nel r&b di quanto non piaccia ai suoi fan; e qui in effetti la chitarra assume un ruolo di comprimaria, pur non essendo certo timida o assente.

La perplessità nelle critiche all'album cresce man mano che lo si ascolta con la mente sgombra, anche se per una meravigliosa ballata acustica come "Easy Now" troviamo come contropartita l'autoironica ma non particolarmente interessante "Blues Power", puntellata dal piano di Leon Russell; per ogni commovente "Lovin' you lovin' me", dalle curve inattese, troviamo un soul blues approssimativo come "Bottle of Red Wine".

Sono comunque più i brani riusciti di quelli incerti o inconcludenti, cosa ulteriormente confermata da ottimi riempitivi come "I've told you for the last time" e "I don't know why", che presi in sé e per sé non sono particolarmente memorabili ma che contribuiscono all'atmosfera dell'album, una sorta di tentativo collettivo di aiutare Clapton a uscire da un momento difficile.

"Let it rain", posta in chiusura, è forse il pezzo migliore del disco, con un assolo formidabile a sostenere un andamento grintoso e a far presagire il futuro prossimo con la nuova formazione Derek and the Dominoes.

L'album fu un discreto insuccesso, quindi, perché non piacque il nuovo taglio roots rock seguito da Clapton, e non per il valore intrinseco del disco: il chitarrista inglese è in un periodo di grande energia, con una crescente ispirazione che incanalerà presto verso un suono più classico e forse più adatto alle sue corde. "Eric Clapton" sarebbe così potuta diventare un'anomalia nel catalogo dell'artista se non fosse che prefigura, nel bene e nel male, gran parte del suo decennio successivo al suo 'comeback' dopo le droghe del 1973 (risparmiandoci per fortuna gli aspetti più letargici della sua produzione degli anni settanta).

A ogni modo, Clapton non riuscirà a sfuggire a lungo al suo ruolo di 'divinità della chitarra'. Il malessere sempre più bruciante, la passione per Patty Boyd, la spirale discendente nella droga hanno solo un modo di sfogarsi per uno come lui: assoli, assoli, assoli brucianti, soprattutto dopo avere incontrato Duane Allman, il chitarrista della Allman Brothers Band, che sarà un elemento essenziale nel nuovo album di Clapton: "Layla and other assorted love songs", che segue di pochissimi mesi "Eric Clapton".

- Prog Fox

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