giovedì 10 febbraio 2022

Manic Street Preachers: "Generation Terrorists" (1992)

Esce trent'anni fa oggi "Generation Terrorists", album di debutto dei gallesi Manic Street Preachers. Tre musicisti guidati dall'amore per il punk e l'hard rock classico, affiancati da un genio anticonformista e tormentato che si consumerà come una fiamma in pochi anni di grande musica e rabbia, in quello che è un esordio fulminante e luminoso.



(disco in edizione deluxe: https://tinyurl.com/bddactt8)

I Manic Street Preachers nascono a Cardiff nel 1986 per opera dei compagni di scuola James Dean Bradfield (nato il 21/02/69), chitarrista e cantante, suo cugino batterista Sean Anthony Moore (30/07/68) e il bassista Nicky Jones detto Wire (20/01/69). Nel 1988 si aggiunge a loro il secondo chitarrista Richey Edwards (nato il 22/12/67).

Veri e propri consumatori onnivori di pop e rock, enciclopedie musicali viventi di rock'n'roll anni cinquanta, beat, psichedelia, rock anni sessanta e settanta, hard rock, glam rock & progressive, di punk e post punk, di Clash e street metal, i quattro ragazzi gallesi hanno l'obiettivo di riutilizzare tutto il materiale tanto per fare successo quanto per denunciare il rock stesso e, di fatto, il proprio stesso successo. I loro primi singoli attirano l'attenzione del mondo musicale ormai stanco degli anni '80 e pronto ad abbracciare una nuova ondata rock.

A ciò contribuisce la chiarezza della visione incarnata in primis dal loro ideologo, Richey Edwards, sorta di figlio di Syd Barrett, Marc Bolan, Jim Morrison e Johnny Rotten, o sorta di cugino britannico di Kurt Cubain (per più di un motivo, purtroppo), che scrive tutti i testi con il supporto del bassista Nicky Wire. Quest'ultimo, studente di scienze politiche, infonde idee anticapitaliste e terzomondiste alla disperazione esistenziale e all'idealismo anticonformista del collega. Frattanto, le dichiarazioni di Edwards colpiscono la fantasia dei giornali musicali e delle televisioni, dal presunto odio per i musicisti inglesi del tempo al racconto della propria lotta con la depressione e l'autolesionismo, alla dichiarazione che avrebbero realizzato il più grande disco rock di sempre per poi sciogliersi e sparire.

Intellettuali di provincia, studenti universitari fuori corso (o laureati, come nel caso di Wire) andati in corto circuito per le letture troppo difficili e l'insostenibile peso della contraddizione incarnata da chi cerca di sfondare in un mondo che vuole allo stesso tempo accusare, riescono in qualche modo a sublimare tutto nelle loro canzoni, che mostrano la capacità incredibile del gruppo di fagocitare tutte le influenze e trasformarle in qualcosa di unico, personale e coerente.

Diciotto brani che riempiono fino all'orlo un compact disc, non sempre a fuoco ma con alcune sequenze irripetibili di brani ebbri di intelligenza e fiuto da alta classifica: "Motorcycle Emptiness" trasforma la solitudine di un biker rozzo e ubriacone in un inno al romanticismo prog, "You love us" sbatte in faccia alla borghesia il suo amore per i ribelli, giocando ancora una volta sulla contraddizione fra anticonformismo e moda, ed entrambe mettono in mostra le doti migliori del gruppo, a partire dagli assoli - tra rock anni settanta e Slash - di Bradfield e dalle sue corde vocali incendiarie, che ricordano un po' lo stile proteiforme, capace di passare da acuti a falsetti, da bel canto a graffiato, di un Freddie Mercury. "Love's sweet exile" vede la chitarra di Bradfield trasformarsi in una sega elettrica sulla quale ammicca un ritornello dal potenziale pop immenso. "Little Baby Nothing" ospita la ex-pornostar giovanile Traci Lords alla voce, che duetta con il gruppo sul tema del patriarcato e dello sfruttamento delle donne.

Anche le canzoni che non arrivano a queste vette traboccano di temi interessanti. Il power pop incontra i Clash nell'ottima "Nat West-Barclays-Midlands-Lloyds", prevedibile accusa alle banche e al mondo della finanza. "Another Invented Disease" prende in esame la teoria del complotto sull'invenzione in laboratorio dell'AIDS per distruggere omosessuali e minoranze. "Repeat (Stars and Stripes)" vede il gruppo sperimentare anche con la new wave rumoristica alla PIL o addirittura ammiccare all'industrial dei Nine Inch Nails, in un brano prodotto e missato dalla Bomb Squad, scelta perché squadra di produzione dei rapper afroamericani Public Enemy. "Born to End" è un tributo sui generis ai Ramones, agli MC5 e ai Beatles, mentre "Tennessee" lo è alla musica di Elvis. "Spectators of Suicide" è una ipnotica ballata intrisa di melanconia. In tutto questo stona solo l'uso di drum machine quasi onnipresenti, imposte dal produttore Steve Brown al posto della batteria vera suonata dal povero Moore, pure co-autore di tutte le musiche!

Sebbene non si dovrebbe mai giudicare un album a partire da ciò che gli artisti che lo hanno realizzato avrebbero fatto più avanti in vita, è impossibile non pensare alle canzoni alla luce della scomparsa misteriosa di Richey Edwards, probabilmente suicida, nel 1995, simile in molti modi a quella di Kurt Cobain dall'altra parte dell'Atlantico. Anche Edwards, come si capisce studiando i suoi testi e ascoltando le sue interviste, era ossessionato dalle contraddizioni del mondo occidentale in generale e del rock in particolare, con magari un taglio più politico rispetto a Cobain ma analogamente disperato e incapace di risolverle dentro di sé. Quando scomparirà, i Manics ne onoreranno la memoria per poi ripetersi autoreferenziali e uguali a se stessi, affidandosi solo all'attivismo politico per espiare la colpa di un enorme successo pop.

Ma quello è il futuro: oggi teniamo nelle mani uno degli esordi migliori della nascente era brit pop. Se Richey è il punto di unione fra Seattle e la Gran Bretagna, i Manic Street Preachers di "Generation Terrorists" tengono in equilibrio, da un Galles che non dimentica le politiche della Thatcher, aspirazioni grunge e street, glam e punk, brit pop e rock'n'roll, la voglia di essere i Clash e quella di essere i Guns'n'Roses.

- Prog Fox

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