Usciva cinquant'anni fa oggi "Islands", quarto album dei King Crimson e unico disco in studio della formazione che oltre a Robert Fripp comprendeva il sax/flauto/tastiere Mel Collins, il bassista-cantante Boz Burrell e il batterista Ian Wallace. L'album è il vertice sinfonico-romantico della formazione di Fripp e uno dei più belli della sua era, ennesimo capolavoro del gruppo britannico.
UNA RECENSIONE E UN COMMENTO
Una recensione...
La Nebulosa Trifida del Sagittario occhieggia da una delle copertine più suggestive del progressive rock britannico e segna l'umore di un iintero disco, orientato, nonostante tutto, a un profondo senso di quiete. 'Nonostante tutto' perché siamo in una delle fasi più confuse della carriera di un gruppo decisamente confusionario, dominato dalla personalità tirannica e ascetica del chitarrista Robert Fripp e dai suoi scontri con la legione di talentuosi musicisti con cui si è confrontato in decenni di carriera.
Quando i King Crimson incidono "Islands", quarto album della formazione, già una decina di musicisti e oltre si sono scornati con il silenzioso accolito del Re Cremisi. Il gruppo che ha inciso "Lizard", fantasia elettroprog spigolosa e di difficile ascolto, non è nemmeno andato in tour, dato che il cantante-bassista Gordon Haskell e il batterista Andy McCulloch hanno lasciato prima ancora di incominciare. Con Fripp sono rimasti l'amico, poeta e ideologo del complesso, Pete Sinfield, e l'impareggiabile Mel Collins, che nel 1970 ha preso il posto del fondatore Ian McDonald a sax, flauto e tastiere, oltre a Keith Tippett, pianista jazz e jazz rock che non è mai entrato nel gruppo ma che da due dischi collabora alle parti in studio.
Le due nuove reclute del gruppo sono Ian Wallace, eccellente batterista presentato loro dal cantante degli Yes Jon Anderson, e Boz Burrell, cantante e chitarrista che, come l'ex-King Crimson Greg Lake a suo tempo, viene riadattato al basso perché altri bassisti-cantanti come Rick Kemp e John Wetton preferiscono entrare rispettivamente negli Steeleye Span e nei Family. Il gruppo, con Pete Sinfield ispirato dall'Odissea e dalle proprie peregrinazioni nel Mediterraneo, concepisce un disco dedicato al tema del mare e del viaggio, che, sulla scia della corsa allo spazio, di "Starsailor" di Tim Buckley e degli album dei Van der Graaf Generator a cui aveva collaborato Fripp, ovvero "H to He who am the only one" e "Pawn Hearts", esplora anche le analogie fra il viaggio stellare e il viaggio per mare, a partire dalla copertina.
Aperto e chiuso da due brani fortemente romantici, melodiosi e pacati, eterei e malinconici come "Formentera Lady" e "Islands", il disco contiene al suo interno il caos del mare e dello spazio ordinandolo, tramite questi due punti di calma, inizio e fine del viaggio. La ciurma di questo ritorno omerico alla patria Itaca è completata da Mark Charig e Robin Miller, rispettivamente cornetta e oboe, già presenti su "Lizard" e che ritroveremo anche più avanti nell'avventura del Re Cremisi.
"Formentera Lady" apre con le immagini marittime della spiaggia, trainate dalla voce limpida di Burrell, che dopo le asperità vocali del baritonale Haskell ci riporta allo stile più innodico di Greg Lake, per poi perdersi progressivamente in un mare siderale su cui i fiati e la soprano Paulina Lucas tessono tele che ricordano il Buckley di "Starsailor". Alla fine, il brano si liquefa nella tempesta di "Sailor's Tale", vero tour de force di questo quartetto, con Burrell totalmente padrone del basso, una sezione ritmica devastante, e Fripp che esplode uno dei suoi assoli più terribili, da far rizzare i peli per il terrore suscitato.
L'album procede con la straziante fiaba nera "The Letters" e con quel capolavoro di jazz rock progressivo che è "Ladies of the Road" (con Wallace e Collins alle seconde voci), entrambi brani che enfatizzano le splendide qualità vocali di Burrell e indicano con decisione la strada per il futuro del complesso.
Preceduto dal dolcissimo, incredibile brano orchestrale "Prelude: Song of the Gulls", reso meraviglioso dal caldo oboe di Miller, troviamo in chiusura, come anticipato, gli undici minuti di "Islands": il brano che da il titolo al disco si trova in posizione speculare rispetto a "Formentera Lady" e rappresenta il nostos, il ritorno dei nostri eroi alla patria marittima da cui sono partiti. Si tratta di uno dei momenti di più assoluta calma neoclassicheggiante prodotti dal rock progressivo inglese, dal profondo, inarrivabile lirismo, e completa e complementa un disco semplicemente superbo.
Come per Odisseo, al termine della navigazione è il solo Robert Fripp a giungere a riva.
Pubblicato l'album, infatti, il chitarrista scioglie la collaborazione con Pete Sinfield, probabilmente disturbato dall'idea di non essere il padrone ideologico del progetto, nel quale finora è stato centrale il contributo immaginifico del poeta. Il tour non va bene: Burrell, Collins e Wallace vivono da rock star, fra feste e droghe, mentre l'ascetico Fripp disapprova; e il clima nel gruppo porta al suo scioglimento temporaneo. I quattro musicisti si riuniranno per realizzare un tour americano già programmato, e le cose vanno molto meglio (saranno testimoniate nel live "Earthbound", quinto album del gruppo, del 1972). Ma Fripp ha già deciso che il progetto va sciolto e rifondato da capo. Ne parleremo.
- Prog Fox
...e un commento
Islands, lo avete letto qui sopra, è il vertice dei King Crimson nella loro era sinfonico-romantica, potremmo dire il loro periodo di “Prog classico”. Le stimmate del capolavoro le ha tutte, dalla produzione travagliata agli scazzi nella band (ma sono pochi i collaboratori di Fripp che non ci abbiano anche scazzato).
Chi scrive, però, ritiene che questa descrizione non basti a mettere in chiaro la dimensione effettiva di questo disco. Questo non è “solo” il capolavoro dei King Crimson con Peter Sinfield, e non è neanche “solo” il più grande disco di Prog propriamente detto mai messo in commercio. Lo è a mani basse, ma è anche qualcosa di più: è uno dei pochissimi album in cui l’incontro tra musica moderna (rock, ma anche jazz) e musica classica avviene compiutamente, iniettando il soffio vitale ad un’opera che trascende catalogazioni, epoche, generi.
Già di “Formentera Lady” è difficile individuare i contorni di genere: è una canzone, con strofa e ritornello, ma è anche una suadente jam session jazz, ed è persino un derivato dell’opera lirica, grazie ai vocalizzi di soprano che ne impreziosiscono il finale; “Sailor’s Tale” è rock progressivo, col suo ritmo dispari e coi mellotron, che, pur con la sua natura di brano strumentale, racconta la storia di una nave che incontra sul suo tragitto una tempesta, e di cui un solo membro dell’equipaggio si salva, raggiungendo a malapena una spiaggia. Quanto siamo vicini alle opere di musicisti simbolisti come Debussy? E in quanti dischi si possono trovare canzoni prog-pop come (le straordinarie) “The Letters” e “Ladies on the Road”, e poi vederle seguite con naturalezza soprannaturale da un brano per quartetto d’archi e fiati come “Songs of the Gull”? Se la musica classica e il jazz-rock si erano fuse nei primi due brani del disco, qui stanno sedute l’una di fianco all’altra, come dipinti di diverse epoche in una collezione piuttosto eclettica.
La title track, che chiude il disco, merita un discorso a parte, perchè incredibilmente alza l’asticella ulteriormente. Come “Formentera Lady” fa collimare jazz, rock e classica in una forma canzone dilatata; ancor più di quest’ultima, però, riesce a evocare nell’ascoltatore un affresco di una concretezza quasi tattile: le isole del titolo sono lì a un passo, a riempirci il cuore di gioia e gli occhi di lacrime.
Forse solo il Floydiano “Atom Heart Mother” è riuscito a dare un seguito così solido all’ambizione di unire la musica classica col rock. “Islands” alla miscela aggiunge anche il jazz, ed è il prodotto di un singolo compositore e arrangiatore, coadiuvato da un singolo autore di testi; è meno coeso e meno magniloquente, rispetto ad un’opera granitica come il mega-capolavoro dei Floyd, ma ha una sua voce stramba, irripetibile, che lo rendono un pezzo unico, un classico sghembo e meraviglioso.
E qui arriviamo al perché parlare “solo” di rock è limitante. Qui si parla di Arte, di cose che durano e che si tramandano nei secoli. Qui si parla di un uomo che disse che il rock prima di lui era fatto coi piedi, e che pochi anni dopo mise sul mercato il più fulgido esempio di musica elettrica fatta con il cervello e con tutti e cinque i sensi.Un disco che porta con sé la sabbia e la salsedine, il vento e l’avventura, la fascinazione conturbante per una bellezza e un mistero che ci invita a sperimentare in prima persona. Chiamate l’UNESCO.
- Spartaco Ughi
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