venerdì 17 dicembre 2021

David Bowie: "Hunky Dory" (1971)

Usciva cinquant'anni fa oggi "Hunky Dory", quarto album di David Bowie. Sebbene Bowie avesse già prodotto dei brani-capolavoro come "The Man Who Sold the World" e "Space Oddity", questo è il primo dei suoi album-capolavoro, caratterizzato da un glam rock maturo e sfrontato adornato di gemme quali "Changes", "Oh! You pretty things" e "Life on Mars?" È anche il disco in cui Bowie assembla la sua prima grande band, che presto verranno conosciuti come gli Spiders from Mars - Mick Ronson (chitarre), Trevor Bolder (basso, tromba) e Mick Woodmansey (batteria), accompagnati per l'occasione da Rick Wakeman degli Yes al pianoforte.



(disco completo qui: https://tinyurl.com/mts8t2ru)

Gli anni ’70 non iniziarono nel migliore dei modi, per Bowie. Sciolta la band che lo seguiva dai tempi di “Space Oddity”, con un successo commerciale che sembrava ancora lontano nonostante le critiche positive ricevute di recente, David si trova costretto a reinventarsi. Abbandona la chitarra come principale strumento compositivo, passando al piano; rilassa le tensioni hard and heavy di “The Man Who Sold the World”, e approccia le nuove canzoni con uno spirito art-pop, post-moderno e sessualmente ambiguo. La vulgata comune sul periodo è, in questo caso, molto ben a fuoco: a partire da qui, col senno di poi, è facile vedere che Bowie “comincia a fare Bowie”.

Il primo brano di questo nuovo batch è “Oh! You Pretty Things”, ispirato all’esoterismo di Crowley ed alla filosofia di Nietzsche, con una spolverata di vibrazioni omoerotiche. Quando altre canzoni cominciano ad essere pronte, e un nuovo contratto con Chrysalis è firmato, Bowie riesce a riunire alcuni dei suoi vecchi pals: si riappacifica con Mick Ronson E Mick Woodmansey, chitarrista e batterista della sua vecchia supporting band, e futuri membri degli Spiders from Mars; Tony Visconti viene rimpiazzato al basso da Trevor Bolder (ma il ritorno del geniale produttore è solo rimandato di qualche anno); per le parti di piano viene ingaggiato il ventiduenne Rick Wakeman, già alle tastiere in “Space Oddity” e futuro membro degli Yes. I pezzi vanno al posto giusto, le influenze transatlantiche assorbite durante il tour americano appena concluso fertilizzano il processo creativo, e le canzoni scritte dal caro David durante il 1971 sono una trentina abbondante. Alcune verrano tenute da parte per un concept album che entrerà in gestazione di lì a poco, ma questa è una storia che affronteremo tra qualche mese: il primo album a vedere la luce si intitola “Hunky Dory”, e vanta una iconica copertina che mette subito in chiaro la nuova, seducente ambiguità del futuro Duca Bianco, ritraendolo come una diva del cinema anni ’30.

L’album contiene più di uno dei classici definitivi della camaleontica carriera del nostro: già l’opening “Changes” è una dichiarazione d’intenti, incentrata com’è sulla necessità di continuo cambiamento che l’artista deve soddisfare per rimanere rilevante e onesto; l’omaggio ai Velvet Underground di “Queen Bitch” è un folgorante falso d’autore della band di New York e una dichiarazione d’amore per il suo carismatico leader Lou Reed, con cui Bowie stringerà un rapporto difficile ma proficuo (e con cui duetterà, proprio su “Queen Bitch”, in occasione del concerto/festa per i suoi cinquant’anni); “Life on Mars?” è forse IL classico quintessenziale di Bowie, una traccia teatrale e magniloquente, con il pianoforte di Wakeman e gli epici arrangiamenti orchestrali di Ronson a costruire spettacolari architetture attorno ad un testo che trasforma le grigie, anonime vite di persone qualunque in parabole surreali, miti post-moderni e stranianti che vedono già, dietro l’angolo, la TV verità e l’epoca dei mass-media fuori controllo. “Oh! You Pretty Things”, inizialmente data a Peter Noone come singolo di debutto, è pure inclusa qui, a completare una line-up di singoli di tutto rispetto.

Ma la tracklist di “Hunky Dory” riserva sorprese anche al di là dei suoi pezzi più noti: “Quicksand” è un lungo brano lento, sostenuto da soavi arrangiamenti orchestrali; “Eight Line Poem” è una delicata ballad sulla solitudine; “Andy Warhol” e “Song for Bob Dylan” completano “Queen Bitch” nel definire un trittico di omaggi per la moderna pop-culture americana; “The Bewlay Brothers” riporta sprazzi di psichedelia e heavy sound in un disco che è un caleidoscopio di art-pop cantautorale; “Kooks” è una filastrocca tutta tenerezza, composta per il figlio Duncan.

I cambiamenti che Bowie promuove nell’incipit dell’album spaventano la casa discografica: subodorata l’intenzione del cantante di effettuare un’altra muta di pelle, i manager decidono di non promuovere a dovere “Hunky Dory”, condannandolo a rimanere fuori dalle classifiche, almeno in un primo momento; che la critica lo incensi come uno degli album più geniali del periodo è una magra consolazione. Servirà il successo gargantuesco del seguente “The Rise and Fall of Ziggy Stardust and the Spiders from Mars” per fare giustizia, portando “Hunky Dory” nelle hit charts l’anno successivo. Un disco incompreso, sfiorato dal dimenticatoio, diventò di lì a pochi mesi un pezzo di storia del rock, l’inizio dell’epoca d’oro, lunga più di un decennio, del camaleonte del rock.

- Spartaco Ughi

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