L'8 novembre di quarant'anni fa vedeva la luce "Architecture & Morality", terzo album degli Orchestral Manoeuvres in the Dark, tra i più grandi artisti del synthpop britannico, che qui si disimpegnano in una delle loro prove più entusiasmanti.
(versione deluxe con tracce extra: https://tinyurl.com/3v7s79ce)
Che McCluskey e Humphreys, il duo dietro al moniker Orchestral Manoeuvres in the Dark, siano credibili candidati al titolo di “padri del synthpop”, è cosa che su questi schermi vi ribadiamo da quando abbiamo cominciato a scrivere di loro. L’esordio della band conteneva quella scia di sassolini che dalla New Wave avrebbe portato al genere principe degli anni ’80; il seguente “Organisation” presentava la prima mega-hit del genere, l’atomica “Enola Gay”, ovviamente.
“Architecture and Morality” è a sua volta stato definito il “blueprint” del synthpop (ovvero il suo modello standard ideale), e per ottime ragioni. Qui il genere è compiuto, le sue potenzialità esplorate persino oltre i confini radiofonici/easy listening che delimiteranno il suo teorico terreno di caccia; qui, gli OMD mettono insieme il magnum opus della loro discografia.
I tre singoli estratti, per cominciare, sono capolavori assoluti, gemme di melodie non scontate e angst malinconica: Humphreys ci mette il carico in “Souvenir”, da lui scritta e interpretata vocalmente; McCluskey è invece protagonista nel duo “Joan of Arc”/“Maid of Orleans”: disperato grido di nostalgia la prima; militareggiante marcia strappacuore, impreziosita da cornamuse-mellotron, la seconda.
L’uso di mellotron, chitarre e altri strumenti “classici” in aggiunta ai sintetizzatori è l’assunto centrale, attorno al quale il disco è costruito: l’architettura e la moralità del titolo (ispirato ad un saggio dello storico David Watkin) si riferiscono alla dialettica tra l’elettronica dei sintetizzatori (l’architettura) e la componente umana, il cuore e l’emozione, che il duo inglese e i suoi collaboratori infondono nell’opera (la morale, appunto).
C’è spazio, come detto, per le emozioni blu dei singoli succitati, ma anche per l’altrettanto sontuosa “She’s Leaving”, che avrebbe meritato a sua volta un posto al sole nei jukebox e nelle radio, e che invece è “solo” la traccia numero 2. Ci sono anche le specialità della casa, tipo il post-punk sghembo di “The New Stone Age” (che sorprende l’ascoltatore con la prima chitarra registrata dalla band), o “Georgia”, brano che ricalca in parte i fasti di “Electricity” per finire più obliqua.
La parte del leone la fa però la sperimentazione più ardita: i quasi 8 minuti dell’aggraziata “Sealand”, a metà tra Brian Eno e gli Ultravox più avanguardisti, e la title track, strumentale, che si mimetizzerebbe senza sforzo in un greatest hits dei Tuxedomoon, descrivono perfettamente l’ambizione della band e rappresentano il perfetto contraltare alla sorprendente mega-hit che li aveva lanciati sul tetto del mondo pochi mesi prima.
Il disco si chiude con la ballad “The Beginning and the End”, che porta tutto l’album a coalescenza: il mood nostalgico, il mix di sperimentazioni con suoni sintetici e strumenti classici, i ritmi dilatati.
“Architecture and Morality” è un insieme di canzoni fantastiche, ed è anche un progetto coerente, in cui ogni brano, ogni suono, ciascuna linea melodica è un tassello del mosaico costruito dagli OMD, all’incrocio tra intellettualismo e immediatezza, sperimentazione e mainstream. Un disco di pura avanguardia, tanto che che fu accolto tiepidamente all’uscita, e impiegò anni a raggiungere un livello di vendite accettabile; un disco che potrebbe uscire quasi senza correttivi oggi, a quarant’anni suonati, ed essere l’ultimo grido del revival synth-pop che oggi spopola nelle classifiche alternative; un disco che, col senno di poi, si può persino definire tangente la perfezione. Standing ovation.
- Spartaco Ughi
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