mercoledì 27 ottobre 2021

Seatrain: "The Marblehead Messenger" (1971)

Vedeva la luce nell'ottobre di cinquant'anni fa "The Marblehead Messenger", terzo album del gruppo di roots rock progressivo americano Seatrain. Il disco, così come il precedente, era prodotto nientemeno che da George Martin.



(disco completo: https://tinyurl.com/nbdwhv6a)

Giunti al terzo album della loro carriera, secondo con la formazione più longeva e nota, formata dal cantante-chitarrista Peter Rowan, dal cantantautore Jim Roberts, dal bassista-flautista Andy Kulberg, dal violinista Richard Greene, dal tastierista Lloyd Baskin e dal batterista Larry Atamanuik, i Seatrain fanno centro per la terza volta su tre.

Le distese musicali solcate dal sestetto, supportato dal produttore inglese George Martin - sì, proprio quel George Martin - vedono unire il roots rock di gruppi quali la Band, le radici bluegrass di Greene e Rowan, e il jazz rock dei gruppi della controcultura - con i Seatrain più vicini ai Flock che non ai Chicago, e non solo per l'assenza dei fiati.

Di fatto, "The Marblehead Messenger" riesce pure meglio dei coevi prodotti della Band, risultando più sanguigno e genuino per esempio del suo "In Cahoots" (1971), e sicuramente comparabile a dischi splendidi come "American Beauty" dei Grateful Dead, rispetto al quale non ha elementi psichedelici, scegliendo tempi generalmente più sostenuti e intensi rispetto ai sogni lisergici dei Dead, alimentate dall'entusiasmo tipico della musica bluegrass e percorse dagli assoli virtuosistici del superbo Greene.

Le canzoni strepitose si susseguono una dopo l'altra: dopo averci riscaldato con la discreta "Gramercy" arriva il primo capolavoro, "State of Georgia's Mind", che si apre come una dolorosa ballata di jazz rock pianistico e poi si infuoca nella complessa, spigolosa vocalità del ritornello. Il livello si mantiene altissimo con la successiva "Protestant Preacher", più country folk in stile ma sempre percorsa da una sottile malinconia. La capacità di variare registro del gruppo nell'arco di una sola canzone è superba, basti ascoltare come il pianoforte di Baskin sposti il tono dal country al blues nel giro di pochi accordi.

"Lonely's not the only way to go" vede Atamaniuk profondersi in una ritmica presa in prestito dal funky, per aggiungere un'altra influenza a un quadro musicale già ricco e complesso. Ancora meglio, a livello dei due brani sopramenzionati, stanno però "How sweet thy song", capace di spaziare fra malinconia, elegia e crescendo, chiusi da un intenso solo di basso, e il breve epos di "The Marblehead Messenger", che alterna a una strofa e a un coro a due voci degni dei Jefferson Airplane una serie incredibile di assoli, dalla chitarra country di Rowan al violino elettrico di Greene passando per il flauto traverso di Kulberg.

L'ultima parte dell'album vede "London Song", suonata meravigliosamente dal sestetto, il dolente country blues "Mississippi Moon", e "Losing all the years", l'ennesima, riuscita canzone proteiforme, che ospita forse il migliore degli assoli di Greene sull'ellepì; per concludersi infine in tono minore con la verbosa "Despair Tire", la cui incongrua parte parlata non può in alcun modo sminuire il valore assoluto di questo album fenomenale.

La riuscita di ben tre album dal suono essenzialmente simile è prova sia del valore come compositori dei musicisti (tutti, tranne il batterista, compongono almeno una delle canzoni del disco) sia della fertilità di quella sterminata landa roots-jazz-prog, che in quegli anni ancora sapeva dare splendidi frutti. I Seatrain non sopravviveranno a lungo alla mancanza di riscontri commerciali e solo Baskin e Kulberg porteranno ancora avanti il nome per un ultimo lavoro, "Watch".

- Prog Fox

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