Viene pubblicato nell'ottobre di trent'anni fa l'album di esordio eponimo dei neo progger americani Echolyn, una delle più originali band del movimento negli anni novanta. Già all'esordio il gruppo è in grado di sfoderare alcune composizioni geniali, ispirate a una profonda rilettura del patrimonio di Genesis, Yes e Gentle Giant alla luce dell'hard rock innovativo dei King's X di fine anni ottanta e dell'emergente movimento grunge/alternativo.
(disco completo qui: https://tinyurl.com/y54farzu
Fin dalle prime note di "Fountainhead" si capisce che siamo di fronte a un gruppo che lascerà il segno. L'arrivo degli anni novanta e del grunge, e il ritorno del suono naturale, analogico ed elettrico degli strumenti, rispetto al massiccio uso di elettronica, sintetizzatori, drum machine e tecnologia digitale che aveva caratterizzato anche molte band neo prog e metal degli anni ottanta, colpisce anche i nuovi gruppi progressive, e gli Echolyn sono fra i primi a debuttare con questo suono deliziosamente al confine fra vintage e moderno.
Al perfetto strumentale semiacustico iniziale, che introduce anche le classiche armonie vocali degli Echolyn e i discreti arrangiamenti di archi del tastierista Chris Buzby, fanno seguito i quasi nove minuti di "The Great Men", che in alcuni passaggi sembra rievocare e riadattare i Genesis agli anni novanta (grazie anche alla indispensabile mediazione di gruppi hard 'analogici' di fine anni ottanta quali i King's X o del post-college rock dei primi Built to Spill), sebbene il timbro ritmico del batterista Paul Ramsey sia assolutamente originale e la voce tenorile e giovanile del principale cantante Ray Weston sia ben lontana dalle atmosfere nasali, teatrali e british di Peter Gabriel, Phil Collins o Fish.
Completa una terna perfetta la maestosa, invernale, notturna ballata "On any given nite", canzone dell'amore perduto in cui le chitarre di Brett Kull evocano prima gli arpeggi di Hackett e poi il melodismo heavy degli anni ottanta nel poetico assolo a due voci, vero viaggio all'interno del viaggio.
Le cartucce più esplosive sono terminate, ma il livello del disco si mantiene dal discreto al più che buono fino al finale. L'ottima "Carpe Diem" continua con un brano più accelerato, il cui momento più riuscito è il corale a metà pezzo e il cui arrangiamento più interessante è ancora una volta nella batteria di Ramsey. "Shades" rappresenta il punto centrale del disco ed è lunga oltre undici minuti: altra canzone decisamente di sapore genesisiano, è troppo dispersiva per sostenere l'attenzione dell'ascoltatore dall'inizio alla fine, anche se alcuni suoi passaggi sono estremamente lirici e di grande presa emotiva, come il giro di tastiere che colora i momenti più melodici della canzone.
La difficoltà nel mantenere l'interesse prosegue con il superfluo strumentale "Clumps of Dirt" (sostanzialmente una messa in mostra delle qualità di Kull alla sei corde) e con le melliflue "Breath of Fresh Air" e "Peace in Time", che almeno include una bella coda vocale di Weston. Meglio "Meaning and the Moment", che esplicita un'altra delle grandi influenze del gruppo, che emergerà ancora di più negli album successivi, ovvero i Gentle Giant, e in parte anche "Until it rains", che cerca di convincerci, senza del tutto riuscirci, del potenziale hard rock eclettico del gruppo.
Chiude invece l'album un'altra canzone riuscitissima, "The Velveteen Rabbit", con Kull alla voce solista, che dimostra ancora la caratteristica capacità del gruppo di alzare il ritmo nella strofa per poi aprire luminosamente il brano, tramite un calo dei battiti al minuto e l'introduzione di una melodia elegiaca.
Disco interessante, la cui apparente derivatività viene superata tramite le sonorità moderne della produzione e degli strumenti e una marcata sensibilità al bello, "Echolyn" non è che il primo atto di una delle formazioni progressive più brillanti degli anni novanta.
- Prog Fox
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