giovedì 28 settembre 2017

Smiths: "Strangeways, here we come" (1987)

Trent'anni fa oggi usciva "Strangeways, here we come", quarto e ultimo album in studio degli Smiths. Disco piuttosto controverso, considerato da molti minore rispetto ai due capolavori centrali della loro produzione ("Meat is Murder" e "The Queen is Dead"), ha una produzione molto più pulita, pop e sofisticata rispetto ai tre album precedenti. Quando il disco uscì, gli Smiths si erano già sciolti: il chitarrista Johnny Marr aveva infatti lasciato la band, esasperato dall'intransigenza musicale del cantante Morrissey e in disaccordo con la direzione musicale del gruppo.



(qui il disco completo: https://www.youtube.com/watch?v=CH1r2lgPjZI)

L'album più controverso degli Smiths, poco da dire. Controverso per mille motivi: primo, il sound non è quello tipico da Smiths, se non per un paio di canzoni, forse meno. Secondo, l'album uscì che la band si era già sciolta: Johnny Marr se ne era andato e l'impaziente Morrissey, dopo qualche tentativo fallimentare con il nuovo chitarrista Ivor Perry (durato lo spazio di un bimestre), decise di mandare tutto a rotoli. Ma perché Marr se ne era andato? Davvero perché Morrissey era un ostacolo per i suoi orizzonti musicali, vista la sua intransigenza musicale? Davvero Morrissey si confinava nel ristretto spazio di quel sound che pure Marr evidentemente aveva violato per scrivere le parti musicali delle canzoni di "Strangeways, here we come"? E come è possibile, se poi Marr in tutto il resto della sua carriera si sarebbe defilato completamente, avrebbe mancato le luci della ribalta, composto un numero ridottissimo di pezzi e quasi sempre solo in un ruolo neanche di secondo ma di terzo piano in band non sue? Mentre Morrissey avrebbe confermato con la carriera solista ciò che avevamo visto di lui negli anni dorati della sua prima band?

Anche se abbiamo un vantaggio di trent'anni su chi si trovava, confuso e probabilmente poco felice, a mettere sul giradischi l'allora nuovo LP della band di Manchester, non abbiamo nessuna risposta a tutto questo. Probabilmente non le trovarono nemmeno il diabolico batterista Mike Joyce e il bassista drogato Andy Rourke. Il mix di personalità esplosive degli Smiths forse spiega meglio di presunte dinamiche musicali l'esasperazione di Marr, peraltro fragile di natura e tendente ad affogare i propri dispiaceri nella bottiglia, mentre Morrissey incarnava al meglio la tipologia di dittatore prototipato da Nerone, una lacrima per Roma suonando la lira all'incendio della città questo, una lacrima per il proprio animo sensibile cantando con voce malinconica su dischi incisi senza accettare contraddizioni, critiche o compromessi quello. Quanto al preciso e dinamico drummer Joyce, invidiava a denti stretti e tramava nell'ombra, pronto a denunciare Marr e Morrissey di appropriazione indebita di guadagni del gruppo, un paio di anni più tardi, mentre Rourke si limitava a mendicare soldi per i propri capricci privati in cambio delle linee tese e tambureggianti del proprio basso, come avrebbe continuato a fare, fra fallimenti e dipendenza, negli anni successivi.

Ci scuserà il lettore se diamo anche noi un'opinione condivisa dai più: "Strangeways, here we come" (che prende il nome dal carcere di Manchester) è il più debole dei dischi in studio degli Smiths, il che non ne fa affatto un brutto disco; ed è il più debole non per la produzione maggiormente sofisticata, che usa espedienti ed esperimenti al tempo stesso più levigati e più chiassosi (archi veri e sintetici, drum machine, sassofoni, effetti, e la contemporanea sparizione del jingle jangle di derivazione byrdsiana) - un cambio di sonorità, un cambio di passo ci sta pure al quarto disco - bensì perché sono le canzoni a non essere all'altezza dei due capolavori "Meat is Murder" e "The Queen is Dead", e a dire il vero nemmeno dei pezzi dell'esordio acerbo ma proprio per questo folgorante di "The Smiths".

Lo ribadiamo: resta un bel disco, a tratti bellissimo, ma paga il confronto con quelli che lo precedono. Per esempio, "A rush and a push and the land is ours" è un inizio convincente che ci mostra appieno le potenzialità del nuovo sound degli Smiths, con le tastiere a sorreggere il brano al posto della chitarra; anche "Death of a Disco Dancer" è poco meno che un capolavoro, con un crescendo fantastico: la scelta di abbandonare il jingle jangle per uno strumming più tradizionale e leggermente distorto anticipa decisamente il brit pop, così come il finale incredibile, ostaggio di tastiere e rumori che anticipano di sei o sette anni certe idee dei Blur era "The Great Escape". "Girlfriend in a Coma" è la ballata leggera nei toni ma inquietante nei contenuti che ci aspettiamo dalla band di Manchester e che rappresenta non solo una delle canzoni più riusciti ma anche una delle più tradizionalmente smithsiane, forse l'unico residuo degli usuali arpeggi di Marr, ma anch'essa rafforzata dagli archi sintetizzati.

Altre canzoni, invece, per quanto discrete, non sono indispensabili o indimenticabili. "Stop me if you think you've heard this one before" fa un po' il verso ai precedenti pezzi degli Smiths usando però arrangiamenti diversi, classico pezzo di transizione; "Last night I dreamt that somebody loved me", il cui inizio ricorda i rumori di macello già sentiti in "Meat is Murder", cerca di giocare la carta dell'epico, ma è forse troppo lunga, o ci sono troppe tastiere, o forse le manca uno scatto finale, nonostante la grande prova vocale di Morrissey.

Purtroppo a contribuire alla fama negativa dell'album stanno buona parte delle canzoni del lato B. I midtempo "Unhappy Birthday" e "Paint a vulgar picture", che pur non disprezzabili appaiono più che altro come riempitivi, cosa inusuale per una band che era abituata a dare un senso compiuto praticamente a ogni brano della propria discografia, B-side comprese. "Death at one's elbow" almeno si fa ricordare per il giro rockabilly.

Per fortuna la conclusiva "I won't share you" è uno splendido, malinconico e degno finale alla esperienza di vita degli Smiths. Forse la canzone più bella del disco, con l'autoarpa inusuale di Marr e la ritmica disegnata dal solo basso di Rourke. Poi ci sarà solo il silenzio, e sarà il tempo delle recriminazioni, dei litigi e del rimpianto.

- Red

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