venerdì 28 luglio 2017

Arcade Fire: "Everything Now" (2017)



Dopo il buonissimo "Reflektor", che dopo l'inutile copia carbone dell'esordio "The Neon Bible" e quel discutibile pasticcio che era "Suburbs" ristabiliva le quotazioni della formazione di Montreal agli occhi di chi non era diventato un adorante azathotiano che in nome dell'esordio lancinante "Funeral" era disposto a passare sopra a qualsiasi fallimento dei propri beniamini, gli Arcade Fire pubblicano "Everything Now" captalizzando sulla loro trasformazione ormai in band di electro pop. È il terzo fallimento in cinque album, che interrompe l'ascesa dei pur volenterosi canadesi all'Olimpo dei rock'n'roll e li arresta nella classifica delle grandi band dell'ultimo ventennio.

Segno preoccupante e sicuro che qualcosa non va sono i nomi che compaiono nel booklet: perché chiamare i pur ottimi Thomas Bangalter (metà dei Daft Punk) e Steve Mackey (bassista dei Pulp) a produrre? Queste collaborazioni che attraversano le generazioni sono talvolta un modo per uscire da un vicolo cieco e di rado riescono - "Everything now" non è purtroppo l'eccezione.

Certo, alcuni brani (e alcuni elementi di altri brani, penso alla voce della mai abbastanza sfruttata Regine Chassagne che da sola salva l'incerto retro synth pop ballabile "Electric Blue") sono dignitosi o anche più che dignitosi, ma a questo disco manca uno degli elementi che può innalzarlo a classico almeno minore o di culto, ovvero a) uno o due pezzoni devastante da traino, b) la sperimentazione, c) un pathos di qualche tipo che impregni di sé l'atmosfera generale. No, amico con la maglietta di "The Neon Bible" (brr) che obietti dal pubblico, 'synth dance' non può essere considerato pathos né atmosfera. Depeche Mode, Madonna, Michael Jackson e Pulp erano molto più che 'synth dance'. Perdiana, anche Lionel Richie era qualcosa più che 'synth dance'.

Con le discutibili "Signs of Life" e "Chemistry" (pezzo datato, che sarebbe suonato debole come ballabile su "Notorious" dei Duran Duran trentuno anni fa) appaiono poi scherzoni metamusicali come "Infinite Content" e "Infinite_Content", due brani da 1 minuti e 40 l'uno dietro l'altro, rispettivamente uno scherzo punk e uno scherzo country, il primo dei quali rovinato dalla voce di Win Butler (dateci Damon Albarn anche sbronzo, anzi meglio se sbronzo) e salvato dagli inaspettati ostinati di archi sul finale, il secondo manco quello. Considerato che tutti hanno odiato l'ultimo eppur decente disco dei Baustelle, soprattutto per il suo citazionismo un po' lurido, mi chiedo che commenti si avrebbero per "Good God Damn" (che clona un po' i Talking Heads, un po' i Supertramp e un po' il Lucio Battisti più funky) se gli Arcade Fire fossero italiani. La ritmica di "Put your money on me" (https://www.youtube.com/watch?v=dHC6I7v-1Pc) potrebbe essere tratta da uno degli strumentali robotici dell'Alan Parsons Project, anche se l'ultimo ritornello, meraviglioso ma rubato agli Abba (archi compresi), riesce a salvare il pezzo in corner.

Lo ripeto: non è un disastro. Come per il secondo e terzo disco della band, c'è abbastanza carne al fuoco a cui gli ammiratori in disperato bisogno di adorazione possono rifarsi per credere che gli Arcade Fire abbiano prodotto un capolavoro (certo "We don't deserve love", https://www.youtube.com/watch?v=NiblaBqJjIg, verso il finale di disco, che da un lato sa di autoplagio ma dall'altro almeno lascia un po' di spazio alla regale (ops) Regine; e allora forse meglio "Creature Comfort",https://www.youtube.com/watch?v=xzwicesJQ7E, verso l'inizio, forse l'unico pezzo che appaia come una riuscita evoluzione di quanto mostrato dal gruppo in "Reflektor"). In generale però c'è troppo retro, mescolato con un marchio di fabbrica vocale che rischia di sfociare nel manierismo. L'electroclash è morto nel 2003 ed era già discutibile all'inizio; quanto alla nostalgia degli anni '80, saremo arrivati almeno alla sua terza ondata.

- Prog Fox

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