Esce il 2 ottobre di quarant'anni fa "Ghost in the Machine", quarto album in studio dei Police, una delle più importanti band dell'epoca new wave a cavallo fra anni settanta e ottanta. Si tratta dell'ennesimo disco di altissimo livello del trio, nonostante gli scricchiolii sempre più evidenti nei rapporti fra Sting e i suoi compagni Stewart Copeland e Andy Summers
(disco completo qui: https://tinyurl.com/8vzdr8n2
Quando arrivano a "Ghost in the Machine", i Police sono sottoposti alla tensione derivante dall'eccessivo successo, e in particolare dal successo della figura di Sting, cantante belloccio che mette in ombra il ruolo di Stewart Copeland (batteria) e Andy Summers (chitarre), due virtuosi dalle personalità importanti che non sono contenti di sentirsi solo come le spalle del bassista.
Durante le incisioni a Montserrat le cose peggiorano ulteriormente. Terminato il proficuo rapporto con il tecnico del suono Nigel Grey, che aveva lavorato ai tre album precedenti, i Police assumono Hugh Padgham, divenuto famoso per il suo lavoro con Peter Gabriel e Phil Collins, e Sting decide di spostare il focus del suono del gruppo dalla modalità power trio (batteria-basso-chitarra) che aveva dominato i primi dischi a un rock denso e stratificato grazie all'abbondante impiego di sintetizzatori e sax, spesso suonati proprio dal cantante-bassista. Non solo: si impadronisce anche di una composizione di Copeland, "Re-humanize yourself", e ne riscrive completamente il testo; e si oppone anche alla proposta della casa discografica di scegliere come primo singolo la strepitosa "Ωmegaman", una pazzesca composizione di Andy Summers, imponendo la propria, più convenzionale, "Invisible Sun" (che peraltro sarà un enorme successo nel Regno Unito, raggiungendo il secondo posto).
Summers e Copeland si trovano costretti ad abbozzare essenzialmente per tre motivi: Sting è l'autore principale del gruppo, Sting è il cantante belloccio del gruppo, le scelte di Sting sono sempre premiate a livello di vendite. Questo inoltre gli consente di avere l'incondizionato appoggio della casa discografica in ogni eventuale disputa con gli altri due.
Molti sono però i brani di assoluto livello portati da Sting: "Spirits in the Material World" (reggae rock classico del complesso, che Sting innova inserendo synth in dosi copiose) e soprattutto "Every little thing she does is magic" (lo Sting più giovanile e sguaiato alla voce, il piano insostituibile dell'amico Jean Roussel, steel drums caraibiche e un altro impagabile arrangiamento irregolare di Copeland, fino alla coda vocale in dissolvendo) aprono l'album in modo entusiasmante. Entrambi saranno grandi successi di classifica.
Sting mette molta attenzione anche nell'incisione di "Demolition Man" (che verrà riutilizzata nel 1993 per la colonna sonora dell'omonimo film con Sylvester Stallone e Wesley Snipes), ma nello stesso stile elaborato, di new wave influenzata dalla world music e dal reggae, probabilmente funziona meglio "One World (Not Three)", il brano che più di ogni altro testimonia del crescente attivismo politico del bassista-cantante. Anche i brani minori da lui composti sono ben concepiti e ben eseguiti, anche se appaiono un po' incerti nella direzione da prendere ("Hungry for You (J'aurais toujours faim de toi)", "Too Much Information"). Più sicura di sé "Secret Journey", caratterizzata da un'altra prova superlativa di Copeland; strutturalmente una delle canzoni più lineari dell'album, punta decisamente al futuro del successivo disco "Synchronicity" (1983).
Non è però un caso che due delle canzoni migliori dell'album non portino la firma di Sting. In primis, la sopracitata "Ωmegaman", una originale variazione di Summers alla modalità del power trio new wave che condivide similitudini con ciò che i riformati King Crimson stavano incidendo proprio nello stesso periodo per l'album "Discipline" (1981): figura ritmica di chitarra ossessiva, assolo minimalista e lancinante, batteria trascinante, coda esplosiva che riprende ogni elemento della canzone per creare un finale mozzafiato. Altro capolavoro il brano conclusivo, l'inquietante, suggestiva "Darkness" di Copeland: giro di pianola sinuoso, una eco lontana di sax nell'inciso, le percussioni a simulare rombi di tuono, il testo pregno di disperazione esistenziale ('I wish I never woke up this morning. Life was easy when it was boring').
"Ghost in the Machine" è un album che condivide pregi e difetti del suo predecessore "Zenyatta Mondatta": artisticamente integro, senza cedimenti a banalità pop o compromessi, non è però perfettamente a fuoco come i primi due album del complesso. Se "Zenyatta Mondatta" soffriva della eccessiva similitudine ai primi due album e alla presenza di riempitivi dovuti ai tempi troppo compressi con cui venne inciso (un mese, prima di partire per un tour estenuante), "Ghost in the Machine" soffre del fatto che il nuovo stile dei Police non sia ancora del tutto affinato, sebbene il taglio della musica sia chiaramente più elaborato e per certi versi anche sperimentale, frutto della visionarietà di Sting, ancora affamato di novità, sebbene a farne ne spese sia la solidità dei rapporti del trio.
- Prog Fox
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