mercoledì 31 maggio 2017

Fabrizio de André: "Vol 1°" (1967)

Nel maggio del 1967 usciva "Volume Primo", il primo ellepì del cantautore genovese Fabrizio de André. Disco acerbo, ancora fortemente dipendente dall'influenza di Georges Brassens e dei colleghi della scuola genovese, contiene già alcuni capolavori della canzone italiana come "Preghiera in Gennaio", dedicata alla morte di Luigi Tenco, "Si chiamava Gesù", e alla reincisione di un classico come "Carlo Martello ritorna dalla battaglia di Poitiers", scritta con l'amico Paolo Villaggio.



(album completo qui: https://tinyurl.com/52wd63es)

Nato a Genova il 18 febbraio del 1940 da genitori piemontesi, Fabrizio de André cresce nella Genova bene grazie alla fortunata carriera del padre Giuseppe, di origini modeste ma infaticabile lavoratore di successo e anche politico (durante il fascismo si impegna per salvare ragazzi ebrei dell'Istituto che dirigeva; dopo la guerra diventa consigliere comunale repubblicano e persino vicesindaco). Giovane ribelle e scapestrato, si appassiona alla musica con l'amico Paolo Villaggio frequentando i cantanti Luigi Tenco, Umberto Bindi, Gino Paoli; frequenta prostitute e canta sulle navi da crociera, ha problemi con l'alcol; legge Max Stirner e si definisce anarchico-individualista; fra tutte le influenze, il suo maggiore modello musicale sarà il cantautore francese Georges Brassens.

L'influenza di Brassens non si sente certo nel suo primo singolo: nel 1961 esce "Nuvole barocche"/"E fu la notte", un 45 giri che contiene due pezzi volti a una canzone italiana ancora romantica e passatista. Cambia registro subito, però, con "la ballata del Miché" (1961), le sarcastiche, brasseniane "Il fannullone" e "Il testamento" (1963), "la città vecchia" (1965), "la ballata dell'amore cieco" (1966), con "Carlo Martello ritorna dalla battaglia di Poitiers" (1963) scritta con l'amico Villaggio, con l'antimilitarista "la guerra di Piero" (1964); anche se il successo gli arride per la prima volta con la cover di Mina della sua "la canzone di Marinella" del 1964. La maggior parte di questi brani vengono raccolti in "Tutto Fabrizio de André", una antologia del '66, ma il suo vero e proprio debutto su LP è "Volume Primo", che viene pubblicato nel maggio del 1967.

Sin dall'apertura di "Preghiera in gennaio" è chiaro che siamo davanti a un'opera superiore. Forse, all'epoca, si trattò del più importante e riuscito long playing di musica leggera mai pubblicato in Italia; affermazione importante, dato che abbiamo avuto molti buoni se non ottimi dischi a opera di Domenico Modugno, Renato Carosone, Fred Buscaglione, Luigi Tenco, Gino Paoli, Umberto Bindi, Bruno Lauzi, Piero Ciampi, Sergio Endrigo, Enzo Jannacci, Giorgio Gaber, Adriano Celentano, Mina, Ornella Vanoni, i Giganti, l'Equipe 84, e, non ultimi, i debutti di Francesco Guccini con "Folk beat n°1" e di Lucio Dalla con "1999", entrambi del 1966.

Un altro elemento appare chiaro fin da subito (dai singoli prima ancora che l'album fosse solo concepito): De André è il prototipo dell'artista radical chic, un ragazzo scapestrato e viziato che può permettersi tutto per la famiglia dalla quale proviene, far licenziare un prete che lo ha molestato alle scuole private invece di subire in silenzio, fidanzarsi con una prostituta, mettere incinta una donna 7 anni più grande di lui con conseguente matrimonio riparatore, cambiare tre volte facoltà e mollare gli studi per fare l'artista, trascurare il figlio, convivere more uxorio con un'altra donna mentre è ancora sposato; ma il suo mettersi dalla parte degli umili, sempre, che siano inetti, suicidi, puttane, drogati, indiani americani, zingari, transessuali, Gesù Cristo (la religiosità cristiana sarà elemento fondamentale in tutta la carriera di De André) o un aspirante terrorista, assume un valore assoluto e privo di ogni connotazione ridicola o ipocrita grazie essenzialmente a due aspetti del carattere del cantautore genovese: da un lato la sincera coerenza con cui la persegue per tutta la vita (al contrario di chi è passato da chiedere la cancellazione del debito ad appoggiare referendum costituzionali, o di chi è passato dall'attaccare la mafia e le dittature sudamericane ad attaccare le scie chimiche, o ancora a chi è passato da scatarrare sui giovani d'oggi a mendicarne l'audience sulle tivù a pagamento), quella coerenza diversa nei contenuti ma identica nella forma, appannaggio di personaggi schivi e irreprensibili quali Lucio Battisti e Ivan Graziani; e, soprattutto, la profonda, umile umanità di uno che non ha mai puntato un dito per giudicare (dato che il dito più lungo della sua mano NON è l'indice, quasi-cit.), al contrario di legioni di suoi fan. La possibilità di provare la sua coerenza De André ce l'avrà anche concretamente (e supererà la prova a pieni voti) quando sarà rapito dall'Anonima sarda.

Fatta questa immensa prefazione che l'artista merita, parlando noi del suo primo album, andiamo a vedere le singole canzoni - l'LP è splendido, ma Fabrizio de André farà molto di meglio - a partire proprio da "Preghiera in Gennaio", dedicata all'amico Luigi Tenco, suicidatosi nel 1966 dopo l'eliminazione da Sanremo, in quello che fu uno degli eventi più famosi e tragici della canzone italiana. Una canzone che oltre ad avere un andamento da marcia funebre, con un uso quasi soul jazz dell'organo, si caratterizza per uno dei testi più profondi e commoventi del cantautore, che con tono accorato rivolge una preghiera (che ha poco di laico) a Cristo perché accolga il suicida, con toni sì universali da potersi estendere a tutto il mondo degli sconfitti e dei sofferenti.

Il disco prosegue su ottimo livello: "Marcia nuziale" è la traduzione di una canzone di Brassens del 1957, che narra la storia di una coppia di mezza età che si decide a sposarsi dopo molti anni di fidanzamento, e in cui spicca una strepitosa armonica; "Spiritual" è un gospel con pure il coro call-and-response; "Si chiamava Gesù" riprende le tematiche musicali di "Preghiera in Gennaio", con uno splendido lavoro delle chitarre, e anche in parte il tema lirico della religione. Qui De André dice chiaramente che non crede nella divinità del Cristo ("non intendo cantare la gloria, né invocare la grazia o il perdono di chi penso non fu altri che un uomo"), ma ne fa un ritratto rispettoso e ammirato, di quell'ammirazione dell'autore per la persona del Messia, della sua capacità di perdono ("inumano è pur sempre l'amore di chi rantola senza rancore, perdonando con l'ultima voce chi lo uccide fra le braccia di una croce"), della sua immensa umanità ("per quelli che l'ebbero odiato nel Getshemane pianse l'addio"), della sua mitezza ("accettando ad estremo saluto la preghiera e l'insulto e lo sputo"). Interessante notare che mentre la RAI censurava De André, la radio vaticana trasmetteva sulle sue frequenze proprio "Preghiera in Gennaio" e "Si chiamava Gesù".

"Caro amore", incisa su melodia del compositore spagnolo Joaquin Rodrigo ("Concierto de Aranjuez", 1939), viene esclusa dalla ristampa del 1970 per esplicita richiesta di Rodrigo stesso, che disapprova il testo di De André. Viene sostituita da "la canzone di Barbara", brano minore di Fabrizio pubblicato qualche mese prima in 45 giri. La cosa interessante di "Caro amore" è che in essa compaiono per la prima volta i temi morriconiani che De André tanto esplorerà tra il 1968 e il 1973; qui però più che una derivazione da Morricone e dalle sue colonne sonore per Sergio Leone emerge il comune antesignano rappresentato da Joaquin Rodrigo stesso (per averne un'idea si ascolti il secondo movimento del concerto qui). "La stagione del tuo amore" è una delicata canzone d'amore per una donna non più giovane, davvero garbata in modo delizioso e in nulla stucchevole.

"Via del campo" e "Bocca di rosa" non hanno bisogno di presentazioni: sono due delle più famose composizioni del cantautore, entrambe chiari esempi dell'attenzione già presente a inizio carriera (De André ha 27 anni appena) per gli ultimi e i diseredati. "Via del campo" è un malfamato vicolo genovese rifugio di prostitute, travestiti e poveri; la musica riprende quella di "La mia morosa la va alla fonte", scritta da Jannacci nel 1965. "Bocca di rosa" parla di una donna facile che arriva nel paese di Sant'Ilario e lo sconvolge perché "lo faceva per passione" e pesta i piedi a perbeniste e bigotte. Anche qui l'ispirazione testuale è di Brassens, che firma anche la musica medievaleggiante di "La morte", il cui testo però è completamente stravolto e tratto da una poesia di Théodore de Banville.

Prima di concludere l'ascolto del disco, vale segnalare un'altra peculiarità che colora tutta l'opera di De André, ovvero la sua antropofagia lirica e musicale e allo stesso tempo la sua noncurante generosità. Nessun altro cantautore italiano o straniero che abbia davvero composto testi e musiche dei suoi brani può vantare tanti co-autori, segno anche di un voler tributare un chiaro riconoscimento a tutti i suoi collaboratori; allo stesso tempo la cannibalizzazione di De André di qualunque cosa, testo o musica, che gli passi vicino, è il segnale di una cultura enciclopedica, capace di riutilizzare creativamente materiale pre-esistente, che lo caratterizzerà per tutta la carriera e complementa la sua capacità di collaborare. E vale quindi la pena ricordare il più importante collaboratore di "Volume Primo", il maestro Giampiero Reverberi, che si occupa degli arrangiamenti e della produzione e che lavorerà proficuamente anche con Lucio Battisti, i New Trolls e le Orme prima di fondare il Rondò Veneziano.

Per terminare l'album, De André sceglie di reincidere un pezzo scritto con Paolo Villaggio, quella "Carlo Martello ritorna dalla battaglia di Poitiers" che abbiamo già nominato all'inizio e che rappresenta un altro dei capolavori della produzione del cantautore genovese sulla quale non serve spendere molte parole: si tratta ormai di un classico della canzone umoristica, sarcastico e degno nel suo piglio dissacrante di Skiantos ed Elio e le Storie Tese. Il tono aulico della melodia e la parodia del mondo cavalleresco sono invece degni de "L'Armata Brancaleone" (1966).

- Prog Fox

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