venerdì 10 marzo 2017

Shins: "Heartworms" (2017)

Dopo cinque anni tornano gli Shins, ma è un fake: James Mercer fa tutto da solo e i risultati sono piuttosto discutibili soprattutto dal punto di vista tecnico: la produzione è davvero sbagliata clamorosamente, nonostante la parte compositiva non sia malaccio.




(disco completo qui: http://www.deezer.com/album/15578742)

Dopo essere stati una band fino al 2011, gli Shins videro il leader James Mercer licenziare tutti i suoi compari di strada per realizzare quello che di fatto era un disco solista, "Port of Morrow", nel 2012. Da allora, Mercer si è dilettato con un po' di collaborazioni e ha inciso un paio di tracce in giro nel 2014 e 2016, prima di arrivare con "Heartworms" al primo album dopo cinque anni. La formazione, tutta rinnovata, è al servizio completo del cantante, polistrumentista e compositore, e vede al suo fianco i polistrumentisti Mark Watrous, Yuuki Matthews, Richard Swift, che assumono ruoli diversi da canzone a canzone, e il batterista Joe Plummer.

Come ci si può facilmente aspettare, si tratta di un disco di pop rock che si rifa dichiaratamente - come tutta la produzione degli Shins - ai grandi maestri del pop rock anni sessanta (Beatles, Beach Boys, Zombies) e a tutti i loro discendenti (da quelli anni '70 come i Fleetwood Mac e i 10cc a quelli anni '90 come gli Apples in Stereo e i Neutral Milk Hotel). L'aspetto fondamentale da giudicare di un disco pop è dunque la sua orecchiabilità, possibilmente senza che questa si traduca in melodie troppo zuccherose, sciocche o banali. In questo senso il risultato è buono, dato che brani come "Name for you" (https://www.youtube.com/watch?v=HbFhEUs6u1k) o "Cherry Hearts" (https://www.youtube.com/watch?v=6-4EEyW61Ok) sono canzoni eccellenti compositivamente parlando - niente di rivoluzionario, ma sicuramente anthem dal tocco vagamente malinconico da cantare a squarciagola ai concerti.

Il problema principale dell'album, a parere di chi scrive, è la produzione davvero cheesy, con onnipresenti suoni di tastierine, discutibili filtri a voci e strumenti, e in generale un feeling di patacca non entusiasmante. Persino un country acustico come "Mildenhall" (che già di per sé sarebbe poco eccitante) viene annegato da una sequela di suonini che ricordano i peggiori eccessi degli anni '80. Ancora più sconvolgente la bruttezza del sound di "Half a million", che distrugge totalmente un pezzo che avrebbe potuto essere una piccola gemma nelle mani dei Cheap Trick. Tutto il disco è devastato da questa scelta assurda: se vuoi fare un disco di pop con suoni moderni devi saperlo fare oppure finisci solo per suonare come quei dinosauri che a metà anni '80 provavano a fare synth pop con risultati agghiaccianti. Che diavolo è quel filtro alla voce più suono da tastierina bontempi su "Dead Alive"?

Ora, è vero che il vostro umile recensore negli anni '90 preferisce il noise al brit pop, ma degli anni '80 adora Depeche Mode, Orchestral Manouvres in the Dark e New Order; e apprezza persino gli MGMT - quindi non c'è una pregiudiziale sulle nuove tecnologie se utilizzate con gusto, che è proprio quello che qui manca. Non basta avere belle melodie in testa se poi si suonano a questa maniera. L'aspetto consolante, se vogliamo, è che dal vivo queste canzoni dovrebbero suonare decisamente meglio, recuperando la loro bellezza coperta da eccessi in fase di produzione. Siamo curiosi di scoprirlo.

- Red

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